“Il sindaco ha sbagliato a ritirare i libri gender. Fin da piccoli nei bambini si inculcano vecchi stereotipi, compreso quello di genere che da grandi rischia di compromettere la relazione tra uomo e donna. Disprezzare le famiglie gay rientra in questo tipo di discriminazione”. Emma Baumgartner è docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Sapienza di Roma e si occupa di studi di genere da parecchi anni. Le abbiamo rivolto alcune domande per capire se, come e quando l’educazione alla diversità di genere incide sulla crescita della persona. “Non è vero – ha premesso – che la famiglia tradizionale è garanzia di benessere e quella omogenitoriale complica la vita ai figli, lo dimostrano moltissimi studi. Ne abbiamo fatto anche uno noi quest’anno e le differenza non c’è, anzi nei nuclei con due genitori dello stesso sesso c’è più comunicazione”.

A quale età si formano i pregiudizi di genere?
Molto presto, tra i 3 e i 5 anni. Con il passare del tempo si consolidano. Che sia così lo dimostrano gli studi di genere, i primi risalgono agli anni Ottanta, all’interno della psicologia sociale poi sono stati estesi alla psicologia dello sviluppo. Il punto di partenza sono state le ricerche sulle discriminazioni etniche negli stati Uniti 20 anni prima.

In che modo la differenza sessuale si trasforma in uno stereotipo, alzando una barriera tra uomo e donna?
Quando la differenza sessuale, che è un dato di fatto, viene connotata da alcuni valori e ideali sociali e diventa segregazione di genere. Intorno ai due anni di vita il bambino si rende conto che esistono due gruppi, femminile e maschile, e li traduce come simile a sé o diverso da sé in base al suo sesso biologico. Dai tre anni tendono a scegliere compagni di gioco dello stesso sesso perché in testa hanno maturato preconcetti molto chiari. Che assimilano nel contesto sessualmente connotato in cui crescono, a casa, a scuola, un po’ ovunque”.

Un esempio?
A partire dal colore dei vestitini, in prevalenza rosa per le femmine e azzurro per i maschi. Dai tipi di giocattoli che comprano gli adulti, bambola per lei e macchinina per lui. Dall’organizzazione degli spazi all’asilo, l’angolo della cucina da una parte, quello delle costruzioni da un’altra, senza possibilità di contatto.

Tutto qui?
In famiglia assorbono l’uso delle parole, opinioni e atteggiamenti degli adulti in relazione ai sessi. Per capirci, i genitori con le bambine hanno un’interazione più verbale che fisica; il contrario con i bambini. E cambia il vocabolario. Per esempio quando devono fare un puzzle, con il bambino vengono usati riferimenti geometrici, ‘metti qui l’angolino, qui manca il quadratino’, mentre con la femmina si bada al contenuto, ‘metti qui il fiorellino, incastra qui la casetta’. La differenza dei lavori svolti da mamma e papà li condiziona. Imparano alla svelta che la donna è quella che cucina, lava, stira e si prende cura delle persone. E che le insegnanti sono quasi tutte donne. L’uomo invece è dedito allo sforzo fisico, fa il muratore, il calciatore, aggiusta le strade e paga le bollette. Si tratta di stereotipi impliciti molto pervasivi. Poi ci sono quelli espliciti, che nascono dalle esperienze. Il bambino che vuole preparare la torta con le amichette ma viene allontanato.

Come si fa a contrastare il pregiudizio di genere?
Bisogna agire sulla reciproca conoscenza dei sessi già in tenera età. Bisogna farli familiarizzare e favorire lo scambio di interessi. All’asilo mettendo vicina l’area delle macchinine, mostri e costruzioni a quella dei fornelli, bambole e passeggini. Creando una zona neutra, un ufficio per esempio, con scrivania, seggiola, tastiera del pc, telefono, che riproduca un ambiente di lavoro, dove possono giocare entrambi. In famiglia i genitori devono scambiarsi i ruoli, non deve essere solo la madre a sistemare i piatti nella lavastoviglie o stendere i panni, né il padre a cambiare la lampadina o tagliare l’erba. Uno studio su bambine di due anni e mezzo ha dimostrato che quando interagiscono con le compagne sono vivaci e hanno iniziativa, quando invece vengono messe insieme ai compagni maschi si spengono come una lampadina. Le loro domande, tipo “perché non facciamo questa cosa insieme?”, vengono ignorate o ricevono risposta negativa. Inoltre, si è visto che i maschi esprimono ordini o domande dirette; mentre le femmine preferiscono la modalità indiretta, tipo “perché non mi dai la mia bambola?”. L’esperienza plasma modelli di relazione da cui il soggetto creerà aspettative.

Si può dire che i ruoli rigidi sono l’anticamera della violenza di genere?
Sì. Nei nuclei omogenitoriali si è riscontrato un maggiore interscambio dei ruoli e condivisione nella cura familiare. Questo favorisce l’abbattimento degli stereotipi e il rispetto reciproco fra uomo e donna. Una vasta letteratura lo dimostra. Ci sono studi molto recenti, del 2013, 2014, 2015, fatti in Canada e Usa, anche in Europa, in Spagna, Francia, Inghilterra. Ne abbiamo condotto uno anche noi, quest’anno, alla Sapienza. Abbiamo messo a confronto 40 famiglie omogenitoriali (20 con padri gay e 20 con madri lesbiche) con 40 famiglie eterosessuali, abbinati per condizioni socioeconomiche. Il risultato è che il benessere psicologico dei figli è lo stesso, quelli con due mamme o due papà non hanno problemi relazionali con i pari, la peculiarità della propria condizione familiare non è percepita come negativa. Anzi, nei nuclei omogenitoriali c’è più comunicazione.

L’educazione ai valori e la trasmissione dell’autorità è legata al sesso?
Assolutamente no. Due donne quindi possono benissimo rappresentare il ruolo di madre e padre. La stessa cosa vale per due uomini. Il sindaco di Venezia ha sbagliato a ritirare i libri gender dagli asili. La famiglia tradizionale non è una garanzia e un luogo protetto per definizione.  L’American psycological association ha dichiarato che è la qualità della cura che conta e non il sesso di chi la fornisce.

Il Fatto Personale

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