Sarà pur vero che si cambia per non morire, ma quando si tratta di telecomunicazioni passare a un altro gestore o scegliere semplicemente di chiudere un contratto prima del tempo può essere davvero molto doloroso. Almeno per le proprie tasche. E, anche i meno sprovveduti, alle prese con questa procedura, si saranno resi conto del paradosso: scegliendo la via del risparmio si è, invece, costretti a spendere dei soldi, dai 30 ai 100 euro, per dire addio al vecchio gestore.

Eppure dal 2007 la facoltà di passare da un operatore telefonico all’altro è garantita dalla legge Bersani (decreto n. 7 del 31 gennaio 2007, convertito nella legge n. 40/2007) che, per facilitare la concorrenza nel settore, ha abolito le penali in caso di recesso anticipato dai contratti telefonici. Legge che, tuttavia, è stata puntualmente aggirata dalle compagnie che, per non perdere profitti e sfruttando le linee guida rese pubbliche nel 2008 dall’Autorità garante nelle comunicazioni (“Gli unici importi ammessi in caso di recesso sono quelli giustificati dai costi degli operatori”), hanno cominciato a imporre i cosiddetti “contributi di disattivazione” usando semplicemente la parola “costi” invece che “penali”. E, così, ogni operatore ha utilizzato un po’ di fantasia, tanto che per Fastweb si tratta di “importo per dismissione”, per Infostrada di “costo per attività di migrazione”, per Telecom “costo disattivazione linea”, per Teletu “contributo disattivazione”, per Tiscali “contributo di disattivazione” e per Vodafone “corrispettivo recesso anticipato”.

Un evidente ostacolo per tutti i consumatori che da anni vivono la più forte liberalizzazione del mercato italiano in balia di una contrapposizione: da un lato le compagnie telefoniche moltiplicano le offerte per accaparrarsi la clientela altrui, dall’altro lato introducono sempre nuovi vincoli all’evidente scopo di renderne più difficile, o per lo meno rallentarne, lo spostamento dei clienti verso altri operatori. Al punto da indurre l’Agcom a intervenire più volte per disciplinare le procedure di passaggio da un operatore all’altro, precisando “che i costi devono risultare correlati ai costi effettivi che l’operatore sostiene, mentre per le procedure riguardanti il trasferimento ad altro operatore non dovrebbero essere neppure applicati”.

Impresa tuttavia più che titanica, tanto da spingere anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (sul cui tavolo nel corso degli anni sono arrivati numerosi ricorsi da parte delle associazioni dei consumatori per le pratiche commerciali scorrette messe in atto dagli operatori) a chiedere aiuto alla politica. Dal 2009, infatti, la relazione annuale e le segnalazioni dell’Antitrust rappresentano la base per la predisposizione, da parte del governo, del disegno di legge sulla concorrenza.

Possono, quindi, ritenersi soddisfatti i consumatori? Assolutamente no, visto che negli ultimi mesi il lungo iter per l’approvazione del ddl ha fatto sobbalzare più volte dalla poltrona. Lo scorso febbraio, infatti, nel disegno di legge sulla concorrenza approvato dal Consiglio dei ministri per un soffio è saltata la reintroduzione di una nuova penale a carico degli utenti che lasciano un operatore telefonico, fisso e mobile, prima della scadenza contrattuale delle promozioni che possono arrivare a 24 mesi. E, nonostante le rassicurazioni del ministero dello Sviluppo Economico, che si affrettò a spiegare che l’espressione si riferiva al recesso anticipato in caso di promozioni (come l’uso dello smartphone) e non al solo recesso, solo una levata di scudi da parte delle associazioni è riuscita a bloccare questo ennesimo regalo per i big telefonici. Ma la vicenda ha di fatto scoperchiato un vaso di pandora: la questione della durata (e della disdetta) dei contratti in caso di offerte promozionali. A oggi, infatti, sono sempre più frequenti le offerte che fanno pagare un costo di uscita extra (oltre a quello normale di recesso) per chi disdice prima dei 24 o 30 mesi, limite temporale considerato troppo lungo dalle associazioni dei consumatori e che penalizza sempre più gli utenti visto che la tecnologia spinge a cambiare il cellulare (cui è legato l’abbonamento) prima di 2 anni e a pagare, quindi, il salato costo di recesso.

A quanto ammonta? A deciderlo, visto che a tutt’oggi non c’è una disciplina ad hoc, ma si trova scritto (piccolo piccolo) nel contratto che si stipula con l’operatore, ci dovrebbe pensare sempre un emendamento al ddl concorrenza. Quello approvato lo scorso 3 agosto dalla Commissioni Finanze e Attività produttive della Camera ha disposto che “il consumatore dovrà essere informato delle spese da sostenere per cambiare operatore telefonico e recedere dal contratto già al momento dell’offerta e non solo al termine del contratto”. E che “gli eventuali costi di risoluzione anticipata da contratti di telefonia e di reti televisive dovranno essere equi e proporzionati”. Ora, in attesa che l’8 settembre riprenda l’esame del ddl concorrenza nelle commissioni, le associazioni dei consumatori hanno già bollato questo emendamento come “inutile”. “L’unica misura seria che va introdotta è la portabilità, ossia zero spese di chiusura, come avviene per i conti correnti. Tutto il resto è un pannicello caldo”, spiega l’Unione nazionale consumatori secondo cui per rendere efficace il ddl concorrenza: “Bisogna prevedere zero spese di chiusura anche in caso di offerte promozionali legate a sconti tariffari e un nuovo tetto di durata alle offerte promozionali che devono passare da 24 a 12 mesi. Mentre – conclude – in presenza di beni in offerta, tipo modem o smartphone in omaggio o scontati, in caso di recesso anticipato il consumatore dovrà versare una spesa commisurata al valore del bene al momento del recesso”.

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