Per una singolare coincidenza, il mio post su “linciaggi 2.0”, ovvero l’odio ai tempi di internet è stato pubblicato due giorni prima che la giornalista Anja Resche parlasse in video a proposito degli hater del web

“Se ora dicessi pubblicamente ‘la Germania dovrebbe accogliere anche i migranti economici‘ cosa succederebbe?” si è chiesta la Resche. “E’ un’opinione, solo un’opinione, che ho diritto di esprimere liberamente. Sarebbe opportuno avere la possibilità di discuterla in maniera obiettiva. Purtroppo ciò non accadrebbe perchè verrei sommersa da un fiume di ingiurie”.

Mutatis mutandis, dalla Germania all’Italia, potrei dire la stessa cosa: ho diritto di esprimere la stessa opinione (l’Italia e l’Europa hanno obblighi giuridici e morali di accogliere i migranti per attutire il drammatico impatto dell’emergenza umanitaria in corso) e di criticare come ritengo opportuno la politica incendiaria di personaggi come Salvini perché sul tema dei rifugiati si sta giocando il futuro del progetto europeo. Quando ho deciso di farlo, sono stato riempito di insulti, ingiure e minacce di ogni genere, in buona parte fomentate dalla gogna mediatica quotidiana della pagina di Matteo Salvini.

L’argomento lo abbiamo già affrontato ma qualche altra considerazione, alla luce del video, che negli ultimi giorni ha spopolato su internet andrebbero fatte: dovrebbe far riflettere che questo problema sia sentito da personaggi più o meno noti, a diverse latitudini d’Europa e che riportare un minimo di agibilità al campo delle opinioni sul web venga percepita come una priorità. D’altronde cosa stiamo insegnando alla prima generazione di ‘nativi digitali’? Che insultare e minacciare qualcuno in pubblico è reato mentre online è lecito e sacrosanto? Che fare “branco” nello spazio internautico ottiene l’effetto di far tacere chi la pensa diversamente? Un passaggio, del ragionamento di Anja Resche, centra un punto particolarmente inquietante: l’odio anonimo ha fatto un salto di qualità, ora è odio con nome e cognome. La strana percezione che gli insulti via web siano “meno gravi” e un senso di sostanziale impunità, garantito dal pessimo esempio di alcuni cattivi maestri, finiscono per convincere alcuni individui che la firma accanto alla minaccia sia autorizzata. Eppure, se la stragrande maggioranza degli odiatori rimangono  intrappolati nei pixel dello schermo, qualcuno di loro poi si materializza e fa danni; i fatti sono quelli che contano ma le parole possono diventare foriere di sventura.

Guardate gli scontri a Roma e a Treviso: l’odio sul web si è trasferito in episodi di vita quotidiana, accompagnato dalle note stonate del “non rompete le palle a chi manifesta” di Salvini. Come scrivevo l’altra volta, forse è arrivato il momento di non tollerare più e di iniziare a denunciare l’odio gratuito e le minacce: sono reati e vanno perseguiti, non furbescamente cavalcati dai soliti noti. Il Consiglio d’Europa ha lanciato da tempo il sito nohatespeechmovement.org per sensibilizzare sul tema del cyberbullismo e dell’hate speech, soprattutto per ciò che riguarda questioni di genere e rifugiati, a riprova che la questione è urgente. L’augurio è che in Italia giornalisti e blogger raccolgano l’appello della collega tedesca e inizino a prendere posizione, accettando che la stagione del “lasciamoli perdere, sono degli idioti” si è conclusa: si può, e si deve, pensarla in maniera diversa ma insulti ed ingiurie devono essere estirpati dal dibattito pubblico sul web. Non è questione di buonismo o “di anime belle”, come dice Salvini, ma di salvare l’agibilità dello spazio pubblico telematico, ovvero il presente/futuro della comunicazione; prima che sia troppo tardi.

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