L’oliata macchina da guerra della comunicazione renziana non si ferma nemmeno ad agosto. Ieri ha preso un titolo di Repubblica (“Il Senato sarà un Vietnam”) – frutto di un’espressione virgolettata ma attribuita a nessuno – e ne ha fatto materia per una raffica di comunicati e tweet contro la minoranza del Pd. Curioso che nella batteria di fuoco figuri anche Matteo Orfini, soi-disant minoranza anche lui e, soprattutto, presidente del partito. Alfredo D’Attorre, anche se è filosofo di formazione, non la prende con filosofia: “Orfini farebbe meglio a occuparsi del disastro di Roma, la responsabilità dei nostri senatori non è mai stata in discussione”.

Dicono che, sulle riforme costituzionali, farete i vietcong.
Nessuno ha parlato di Vietnam, nessuno immagina imboscate, nessuno trama nell’ombra. Qui parliamo di proposte di modifica della riforma costituzionale che sono state presentate da mesi e hanno il consenso di una vasta platea di esperti, specie dopo l’approvazione dell’Italicum.

Dicono: è il secondo atto dopo l’imboscata sulla Rai.
Sul canone Rai non c’è stata nessuna imboscata. Un gruppo di senatori del Pd ha presentato un emendamento di buon senso, ha chiesto di discuterlo nel gruppo, poi – di fronte all’impossibilità di farlo – ha chiesto di accantonare quel punto. Siccome neanche questo è stato possibile, ha sostenuto in Aula la proposta e l’ha votata. Più trasparenti di così…

Dicono: usano il Senato per fare una battaglia politica interna.
Se si pensa che su una materia come la Costituzione bisogna rinunciare al confronto perché altrimenti Renzi si dispiace, forse a dividerci è la concezione stessa della democrazia e del partito. Non facciamo agguati, siamo solo determinati a discutere quale sia la riforma migliore.

Dicono: se ne fregano delle decisioni della maggioranza.
Allora, non si è voluta correggere la rotta sul lavoro e i dati sull’occupazione stanno lì a dimostrare l’efficacia del Jobs Act. Idem sulla scuola e ci siamo inimicati l’intero mondo della formazione. Si è proceduto con prepotenza sulla legge elettorale approvando con la fiducia una norma pericolosa per la qualità della democrazia italiana e che ora rischia di ritorcersi anche contro il Pd renziano. Visti i precedenti, forse Renzi farebbe bene ad avere l’umiltà di confrontarsi e ascoltare.

L’unico punto d’incontro, però, è l’elettività del Senato.
Certo, e si può fare senza perdere tempo cambiando l’articolo 2 della riforma e dando un’identità a questo nuovo Senato, che ora non è né carne né pesce, ma un ibrido privo di forma, con un meccanismo di elezione bizzarro. Una modifica tanto più necessaria visto l’abnorme premio di maggioranza dell’Italicum.

Com’è passare la domenica sotto il fuoco renziano?
I comunicati a raffica sono solo l’ennesimo segno di com’è concepito il partito: non un luogo di discussione e confronto, ma un seguito organizzato attorno a un unico centro di comando. Il partito ridotto a ufficio stampa e comitato elettorale per diffondere il verbo del decisore unico: i tweet e i comunicati fotocopia sono funzionali a questo modello. D’altronde basta guardare le Direzioni: Renzi parla un’ora e mezza e poi nemmeno si degna di replicare alle critiche.

Ora farete una Direzione sulla questione meridionale, come se fosse esplosa ieri…
Una scelta comunicativa più che politica. D’altronde l’esecutivo è in ritardo già sull’ordinario: i fondi comunitari vecchi e nuovi, l’Agenzia per la coesione, un responsabile nel governo per il Sud. Poi c’è un tema più profondo: Renzi si è piegato a una politica economica conforme all’ortodossia di Bruxelles e con quella, nella migliore delle ipotesi, l’Italia è ferma e il Mezzogiorno affonda. È il Sud che paga di più di tutti l’attuale assetto dell’euro: il dato sulla disoccupazione giovanile è lì a ricordarlo a tutti.

Come finisce?
Non lo so, ma così il Pd non va da nessuna parte. Sono preoccupato per il partito e per l’Italia: Renzi mi pare in un vicolo cieco, ma una credibile alternativa politica non è ancora pronta.

da Il Fatto Quotidiano del 3 agosto 2015

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