“Ognuno fece la sua parte: mobilitammo i quartieri e ogni cittadino si mise al servizio della comunità. Il Comune divenne un centro per le emergenze: non avevamo il tempo di disperarci”. Quando il 2 agosto 1980 esplose una bomba alla stazione a Bologna, era appena una settimana che l’avevano nominata assessore della giunta comunale, lì nella città rossa, allora considerata una delle meglio amministrate d’Europa. Miriam Ridolfi (nella foto è l’ultima a destra, col vestito scuro, in uno dei primi anniversari della strage) aveva 36 anni e non pensava che il battesimo del fuoco in quell’incarico così prestigioso sarebbe arrivato così presto. Quando una bomba fece saltare in aria la stazione, a rappresentare l’amministrazione a Bologna c’era infatti solo lei. Una ragazza, una giovane mamma in trincea, tra feriti, parenti angosciati, corpi straziati. “Ero appena uscita dal parrucchiere quella mattina. Aspettavo il bus che mi avrebbe portato a casa. Invece arrivò il botto, assordante. Subito capii che era successo qualcosa e così corsi in Comune”. Iniziò una corsa contro il tempo fatta di solidarietà e sistemi di emergenza improvvisati: la sala di Palazzo d’Accursio trasformata in centralino, i taxi e i bus come mezzi di soccorso, volontari dai quartieri vicini e appelli alla radio. “Recuperammo anche un vestito da sposa perché una mamma voleva che sua figlia di 20 anni fosse seppellita con l’abito bianco”.

Perché proprio lei era di turno in Comune?
Tutti i membri della giunta erano in ferie. Era in ferie il sindaco Renato Zangheri, che se ricordo bene era in Unione Sovietica e riuscì ad arrivare a Bologna solo il lunedì, due giorni dopo. E come lui anche tutti gli altri assessori erano già in vacanza. Io ero l’ultima arrivata in giunta, ero stata nominata il 27 luglio e forse per questo motivo mi chiesero di fare il turno in quei primi giorni di agosto. Allora insegnavo storia e filosofia al liceo Copernico, il 31 luglio terminavo gli esami di maturità e così non mi fu difficile accettare.

Quando capì che cosa era successo in stazione?
Arrivai a palazzo d’Accursio alle 10 e 35, 10 minuti dopo lo scoppio e già i dipendenti sapevano che ne era venuta giù la metà. Non ci perdemmo d’animo: Libero Volta, allora responsabile comunale dei servizi demografici, mi disse che dovevamo preparare una sorta di centro di coordinamento. Così isolammo i telefoni, ci mettemmo in contatto con la Prefettura, la Questura, i vigili urbani. Allestimmo il tutto all’ingresso del cortile del Palazzo, e alle 11 era già in funzione. Arrivavano chiamate di parenti, poi c’erano persone che cercavano un modo per andare via da Bologna. Arrivavano con i vestiti laceri e raccontavano di avere perso tutti i loro averi in quello scoppio.

Bologna in quei giorni si meritò una medaglia d’oro al valore civile: alcuni sopravvissuti hanno detto di essersi salvati solo grazie alla organizzazione dei bolognesi. Come fu possibile?
Nessuno ha inventato niente, tutto era basato sul fatto che ognuno dovesse fare semplicemente la sua parte. C’era chi, come il preside del liceo linguistico, metteva a disposizione le persone per rispondere alle telefonate dall’estero. Chi invece metteva a disposizione le case, chi aveva riaperto gli alberghi, chi i negozi.

Del resto la comunista Bologna era simbolo di buona amministrazione. In che modo questo si tradusse il 2 agosto?
Per esempio coinvolgemmo tutti i quartieri della città: e i quartieri a Bologna in quegli anni erano esempi di grande partecipazione politica. Così il Comune, in un momento di panico generale, ha fatto sì che tutti riuscissero a far fruttare al meglio ciò che potevano e sapevano fare. Poi ci fu la storia della ragazza di 20 anni, morta nella strage, per la quale la madre avrebbe voluto un abito da sposa nella bara. La accontentammo: un negozio ci diede una mano e riuscimmo a vestirla anche perché il suo corpo non era dilaniato. Un altro esempio furono i tassisti: per tre giorni fecero avanti e indietro senza farsi pagare. Perfino gli ottici furono importanti.

Gli ottici?
Sì. Poco dopo lo scoppio arrivò in Comune, un sopravvissuto svizzero, lacero e sporco di nero, che chiedeva di avere degli occhiali nuovi dopo che i suoi si erano frantumati per lo scoppio. Al centro di coordinamento era appena passato un ottico che dava la sua disponibilità per dare una mano. Lo rincorsi, avevo già un lavoro per lui. Lo svizzero riebbe un paio di occhiali.

Quando è che lei intuì che era stata una bomba e non una caldaia?
Sino a metà pomeriggio in Comune non ci chiedevamo che cosa fosse stato, eravamo troppo oberati di lavoro. C’erano da salvare persone, c’erano da firmare documenti anche semplicemente per il trasferimento d’urgenza dei feriti a un ospedale specializzato o per il riconoscimento dei morti. Inizialmente si sparse la voce della caldaia, è vero, ma già la sera del 2 agosto una manifestazione enorme fu organizzata da sindacati e associazioni: era talmente chiaro che fosse stata una bomba.

In tempi in cui non c’erano cellulari, non c’era Internet, come riusciste a fare funzionare il centro?
Lavorando dal 2 al 6 agosto, giorno dei funerali, per 24 ore al giorno. Così riuscimmo. Tante famiglie ci chiamavano. Soprattutto mamme di ragazzi partiti in vacanza quel sabato. Telefonavano in così tante che lanciai degli appelli in radio affinché i figli chiamassero a casa loro, così da tranquillizzare le famiglie e spiegare loro che non erano stati coinvolti nello scoppio di Bologna. Noi avevamo 400 feriti e più di 80 morti a cui dare un nome, eravamo troppo pieni di lavoro.

L’appello servì?
Sì: quando qualche mamma ci chiamava per dirci di avere ritrovato suo figlio, beh furono i pochi momenti di gioia in quei giorni. Per il resto…

Per il resto?
Fu straziante: non avrei mai voluto vedere le persone a pezzi, come se ci fosse stata una guerra. E poi i feriti che vedevo negli ospedali: giravamo tanti reparti in quei giorni: all’ospedale Sant’Orsola, al Maggiore, ma anche l’obitorio.

Che cosa la colpì in quei giorni?
Il dolore della famiglia di Maria Fresu e di sua figlia Angela, tre anni, la più piccola tra le vittime: di loro non restò che un lembo del vestito. I nonni e gli zii rimasero come impietriti dal dolore per quella perdita. E poi ricordo Torquato Secci (nella foto è al centro con la cravatta e gli occhiali da sole), il primo presidente dell’Associazione dei familiari. Secci perse un figlio, ma ebbe la forza di lottare ancora per la verità. Poi sa, l’Associazione nacque anche grazie all’esperienza del nostro Centro di coordinamento del Comune: per molto tempo infatti andammo in giro per l’Italia a trovare le famiglie e riuscimmo così a non perdere i contatti con loro.

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