Roma, flash mob organizzato da Amnesty International in favore dei migrantiLeggere oggi sui quotidiani del Nordest pagine intere dedicate alla ‘notizia’ che alcuni profughi dislocati in Veneto e in Friuli abbiano rifiutato, gentilmente e pacatamente, di mangiare la pasta col sugo o, come accaduto a Udine, qualche giorno prima, ‘perfino’ la pizza al forno (che, come ci segnala ansioso un giornalista, emanava profumo di pomodoro e origano, come a dire “ma come si può mai rifiutare una tale bontà?”) non solo fa indignare per l’ennesima manifestazione di odio, di rifiuto e di razzismo nei confronti dei profughi da parte dei media e dei politici col braccio destro perennemente teso, ma fa anche sganasciare dalle risate. 

Che si tratti di una campagna razzista senza precedenti se ne sono accorti anche su Kepler-438b, a distanza di milioni di anni luce dal Veneto e dal Friuli. Ma non mi dilungherò molto a spiegare il carattere razzista della “notizia” riportata e commentata da politici, operatori caritatevoli e “cittadini indignati”, non perché l’argomento non meriti di essere trattato adeguatamente, ma perché ritengo molto più divertente soffermarmi sul complicatissimo rapporto degli italiani con il cibo.

Sul carattere razzista della notizia, fondata sostanzialmente sul principio “e noi paghiamo!” . In primo luogo, – e mi diverte molto in questo momento frantumare i luoghi comuni razzisti che albergano nelle teste dei più -, non sono gli italiani a pagare per l’accoglienza dei profughi, né di questi di oggi, né di quelli di ieri. Ma come, direte, ci sono i militanti dal braccio teso e dal misto accento padano-romano, che ci hanno spiegato che quei soldi li tolgono ai pensionati e ai disoccupati italiani per darli ai “negri”. Non è vero! E’ banale, ma è così.

Il gettito fiscale e contributivo riconducibile alla presenza straniera in Italia supera i 16,5 miliardi di euro. Mentre la spesa pubblica complessivamente rivolta agli immigrati è stata stimata in 12,5 miliardi di euro. Dunque, vi è un saldo positivo nazionale di circa 4 miliardi di euro. Cioè, per parlare più chiaro, ci sono circa 4 miliardi di euro che lo Stato italiano prende, attraverso la tassazione nazionale e locale, agli immigrati e che non spende per loro. Ecco, quindi archiviamo questa balla gigantesca secondo cui sarebbero gli italiani a pagare per l’accoglienza. Semmai, sono gli immigrati che vivono in questo paese a pagare per i servizi (pensioni, sanità, ecc.) degli italiani (o anche a salvare le banche italiane). E non aggiungo qui i fondi europei per l’accoglienza di cui da anni usufruisce l’Italia, perché credo basti la forza dei numeri citati sopra per chiudere serenamente la discussione. E non sto neanche ribadendo il fatto che si tratta sempre di soldi che alimentano e mantengono in vita il terzo settore (mafioso e non) in Italia e che di certo non finiscono nelle tasche degli immigrati, i quali, il più delle volte, scappano – non lo si deve dimenticare mai – da guerre innescate, volute, alimentate o combattute da questa parte del mondo.

Ma c’è un altro sottotesto negli articoli dedicati a questo “scandaloso” rifiuto del cibo da parte dei profughi, che è il seguente: “come osano questi a rifiutare il nostro cibo, il miglior cibo del mondo, ingrati!”. Ecco, sulla questione del cibo, come sulla mamma, l’italiano medio si offende, si indigna, e persino capace di fare rivolte e di ribellarsi. Senza mai considerare che le abitudini alimentari sono il tratto più importante della cultura d’origine anche degli altri. Spogliarsi di questo elemento profondo della propria cultura, cioè del proprio cibo, nella fase dello choc dell’immigrazione, ovvero nei primissimi tempi, quando si è sopraffatti dalla malinconia incolmabile di un ritorno impossibile, significa spogliarsi dell’identità individuale e collettiva, significa entrare in una fase di alienazione. Gli studiosi hanno paragonato le abitudini alimentari alle lingue materne, perché sono i primissimi elementi attraverso cui ci relazioniamo con il mondo. E proprio per questo motivo sono difficili da abbandonare. Sarebbe come pretendere che qualcuno, di colpo, non parli più la lingua madre. Gli italiani, del resto, sanno bene di cosa parlo, visto che, più di altri popoli, preferiscono ordinare la pasta o la pizza all’estero, invece che assaggiare altri piatti. C’è una scena molto bella del film Bianco rosso verdone che descrive molto bene questo problematicissimo rapporto degli italiani con il cibo. Di fronte alla colazione a base di wurstel e uova fritte preparata dalla moglie tedesca (“mangia ora, che chissà che ti fanno mangiare in Italia”), Pasquale Ametrano di Matera non pronuncia alcuna parola, ma la sua faccia eloquente ha già detto tutto.

Degli immigrati italiani negli Stati Uniti, agli albori del ‘900, diversi giornali dicevano che puzzavano d’aglio, stigmatizzando in questo modo le loro abitudini alimentari. Continuare a mangiare italiano, rifiutando di mangiare altri cibi locali, significava allora per gli italiani emigrati affermare la propria identità, il proprio legame con il passato, con la famiglia, con gli affetti abbandonati. Quante storie, tra l’altro, si raccontano in Friuli su certi traffici di vero e proprio contrabbando di salumi (di San Daniele, ecc.)  in Nord America, da mandare agli emigrati italiano.

Il rifiuto del cibo, del resto, è anticamente descritto, in diversi testi, come un momento di affermazione e dell’orgoglio dei soggetti. Anche Achille, nell’Iliade, saputo della morte di Patroclo e delle resistenze di Ulisse e degli altri nell’attaccare Agamennone, si rifiuta di mangiare con gli altri, cioè rifiuta il cibo per rendere noto agli altri la sua anima ferita e la sua non accettazione del mondo che lo circondava.

Insomma, visto che i soldi sono degli immigrati e visto che non sono desiderosi di alienarsi, perché non chiedere a loro cosa preferiscono mangiare? Senza offendersi per la pasta, per il sugo, per le polpette e per l’origano profumante non apprezzato.

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