La famiglia Pesenti vende la maggioranza di Italcementi Group ai tedeschi di Heidelberg  per 1,7 miliardi di euro. Non è una notizia che ci turberebbe se non venisse dopo quella di Pirelli ai cinesi (sia pure con altre modalità), di Indesit agli americani, di Telecom passato al controllo dei francesi Vivendi, di Parmalat ai francesi di Lactalis, per non parlare dello shopping fatto nel made in Italy: Loro Piana, Pomellato, Poltrona Frau, Bulgari, per citare solo alcune recenti.

L’imprenditoria italiana sembra aver perduto l’iniziativa a intraprendere, si ritira dalle scene o assume un ruolo defilato. Bisogna riconoscere un dettaglio non trascurabile nelle valutazioni delle dinastie interessate: lo fanno rastrellando quantità significative di denaro. Ma era questo l’obiettivo delle prime generazioni fondatrici? E pensando in termini collettivi, fa bene all’Italia il progressivo sganciamento dall’attività industriale? In questo caso perdiamo il controllo di un’impresa  storica che ha accompagnato la storia d’Italia e il suo processo di industrializzazione nel dopoguerra.

Nata nel 1864 con la società bergamasca per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica, nel lontano 1906 la famiglia Pesenti ne prese il controllo. Da allora, attraverso una serie di abili fusioni e acquisizioni, l’ha trasformato in un gruppo internazionale che annovera attività in 22 Paesi, 46 cementerie in 4 continenti, 18000 dipendenti, ricavi per oltre 4 miliardi di euro. Adesso, la sua sesta generazione vende alla tedesca Heidelberg, una società molto più grande, che lanciando un’Opa ingoierà Italcementi. Probabilmente la fusione tra gli altri grandi operatori del settore la francese Holcim e Lafarge ha mosso un risiko nel settore e spiega una simile mossa dei tedeschi per mantenere la leadership a livello mondiale.

A noi comuni cittadini dovrebbe preoccupare il futuro perché cosa possa accadere è prevedibile: la creazione di valore di cui si parla nelle dichiarazioni delle parti passa attraverso razionalizzazioni e ristrutturazioni. Come in altri casi potremmo perdere occupazione, l’accumulazione di know-how e tecnologie come nel caso in oggetto, il controllo dei mercati serviti.

Sarà mica che la crisi economica italiana sia anche la crisi di quella che Ernesto Rossi nel suo libro straordinario chiamava i Padroni del vapore, mettendo sotto accusa l’imprenditoria italiana e la Confindustria? Se il dubbio fosse fondato, non basterebbe abbassare le imposte sul profitto di cui parla il primo ministro.

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