Si avverte un che di stantio tra le idee di coloro che da sinistra hanno attaccato Tsipras, accusandolo di tradimento e chiedendo dall’oggi al domani l’uscita dalla moneta unica. Avventatezza, estremismo e persino qualche nostalgia inconfessabile: senza dubbio anche di questo è fatta la tribù dei no euro. Questo però non dovrebbe portarci a credere nella bontà delle posizioni di coloro che, nella capitolazione greca, vi hanno scorto i segni dell’ineluttabilità. In nome di una supposta lungimiranza, la sinistra radicale-moderata italiana ha infatti sentenziato che di più non si poteva fare e che quanto meno il deficit democratico europeo è ormai lampante a tutti. Non solo, alcuni si sono spinti a dire che Tsipras farà di tutto per condurre una lotta alle disuguaglianze all’interno della cornice venutasi a creare.

La sinistra comunista italiana ci ha storicamente capito poco di economia, costretta a più riprese ad appoggiarsi ad analisi e proposte elaborate da economisti di estrazione molto diversa (come nel caso dell’ossessione deflazionistica del Pci negli anni ’70 che doveva molto di più al repubblicano Ugo La Malfa che a riflessioni attinenti alla propria traiettoria ideologica). Vi si aggiunge una comprensione abbastanza precaria – qui peraltro globale e non solo italiana – dell’importanza delle questioni monetarie, oscurate dalla tradizionale ossessione per le forze produttive. La percezione è che la moneta sia una specie di meccanismo automatico e neutrale: un velo, insomma, di altri fenomeni. Ciò che sfugge è che i soldi, e in particolare i soldi moderni, sono amministrati dall’alto sotto una stretta sorveglianza gerarchica e in tal senso costituiscono una reificazione di interessi particolari. Si tratta cioè della cristallizzazione di relazioni sociali, smentendo la percezione dettata dalla quotidianità che vorrebbe la moneta sostanzialmente impersonale.

Un’analisi seria della situazione non può che partire da una disamina impietosa del piano di salvataggio. Si tratta di un piano altamente recessivo, che esacerberà senza appello le disuguaglianze e renderà il debito ancora più ingestibile, proiettandolo oltre il 200% del Pil greco. Non solo: il grado di penetrazione dei processi di sorveglianza è reso così severo da togliere al governo qualsiasi margine di manovra. Come ha recentemente dichiarato Costas Lapavitsas, professore di economia esperto di questioni monetarie e parlamentare di Syriza, la Grecia è destinata a un futuro da misero paese neocoloniale ai margini dell’Europa, impoverito, umiliato, privato di qualsiasi prospettiva di crescita nel medio periodo, dilaniato dall’emigrazione dei suoi talenti migliori e interamente svestito delle sue attività produttive. Chi racconta che in questo contesto Tsipras farà del suo meglio per rendere il tutto più sopportabile non coglie a pieno la portata catastrofica del nuovo piano.

Tuttavia, sarebbe fuorviante giudicare Tsipras come un traditore. Il premier greco aveva da subito fatto capire che lui credeva, seppur ingenuamente, alla possibilità di ottenere un risultato positivo attraverso le negoziazioni con l’Europa, scartando praticamente a priori un piano B. Tsipras è così andato a sbattere contro quel muro che in molti gli avevano segnalato: il programma di Salonicco, un coacervo di misure di orientamento mitemente Keynesiano, è rimasto lettera morta proprio perché faceva leva sulle buone intenzioni dell’Unione Europea. Era cioè viziato alla base da ragionamenti economici e politici privi di attinenza con la realtà.

E che dire della prospettiva Grexit allora? Uscire dalla moneta da un giorno all’altro non è certamente possibile senza causare un pandemonio. Tuttavia Tsipras ha buttato a mare un’opportunità colossale. L’uscita della Grecia dalla moneta unica infatti non è una questione di se, ma di quando. Come sottolineato da Lapavitsas, l’Euro è un’unione monetaria fallita, un’esperienza senza precedenti in quanto a risultati negativi tra effetti recessivi, esacerbazione delle disparità economiche e frazioni politiche. Per la Grecia l’adesione alla moneta unica è stata un disastro senza pari, giacché accolla al Paese il prezzo di appartenere a una dimensione economica non consona ai suoi parametri strutturali, rendendo la sua fuoriuscita – per usare un termine demodé ma efficace – una “tendenza oggettiva”. La teoria monetaria segnala infatti che quando un Paese non è strutturalmente fatto per appartenere a una data unione monetaria prima o poi vi esce. La spirale dei debiti, destinata a creare sempre maggior pressione sul Paese, finirà per mandarlo in bancarotta e proiettarlo automaticamente fuori dall’orbita dell’Euro. La durezza imposta dal nuovo piano non è quindi altro che un inutile e raccapricciante sacrificio.

Coloro che indicano che la Grexit non sarebbe stata in linea con il desiderio del popolo greco di mantenere l’Euro fanno un altro errore. La politica non è una fotografia istantanea degli umori della società, ma la capacità di un progetto di influenzarla progressivamente. Forte di un mandato popolare piuttosto ampio, Tsipras avrebbe potuto prendere i primi passi per organizzare tecnicamente un’uscita e per spiegare politicamente che l’austerità non ha soluzione all’interno di quel perimetro, portando la popolazione ad essere protagonista di questo passaggio. Passaggio che avrebbe avuto bisogno di un’altra serie di misure tali da renderlo davvero progressista: moratoria del debito, nazionalizzazione del sistema bancario nazionale, fine dell’indipendenza della banca centrale, controlli ai movimenti di capitale, assicurazione dell’approvvigionamento dei beni strategici. Ci sarebbero stati dei razionamenti? Sicuramente, ma meglio quelli imposti da uno Stato che vuole riportare il Paese sui binari della crescita, che quelli regressivi imposti dal portafoglio.

Infine: ma non era anche l’idea di Schäuble? Va innanzitutto detto che il ministro delle Finanze tedesco avrebbe avuto da obiettare sulle misure secondarie elencate sopra. Pur non essendo possibile stabilire con esattezza la causa della sua posizione, tre elementi possono concorrere a spiegarla. In primis, come spiegato recentemente da Varoufakis, l’idea di Grexit era atta a terrorizzare i francesi, in modo tale da ricondurli a una maggior disciplina fiscale e a spingerli a un passaggio di poteri da Parigi a Brussels. Si tratta in altre parole di una partita che va ben oltre la Grecia. In secondo luogo, la Grexit era anche un modo per imporre maggiore austerità: conoscendo l’avversione di Tsipras per tale prospettiva, il gioco delle parti la rendeva la miglior minaccia per forzare misure ancora più impopolari. Infine, il peso della politica: nonostante la Grexit mini gli interessi di coloro che vi rimangono togliendo credibilità alla pretesa di moneta di riserva mondiale, per Schäuble liberarsi delle “cicale” greche probabilmente avrebbe costituito una vittoria. È l’ideologia, bellezza.

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