L’Ufficio di presidenza della Camera ha detto no. Niente tranche di luglio dei rimborsi elettorali relativi al 2013. Perché «non sussistono le condizioni sufficienti per erogare, nemmeno pro parte, la rata dei contributi pubblici spettanti nel 2015». Ecco cosa ha sostenuto nella sua relazione il deputato di Sinistra ecologia libertà (Sel), Gianni Melilla, incaricato dalla presidente Laura Boldrini, in qualità di segretario dell’organismo di Montecitorio, di approfondire le conseguenze giuridiche del mancato pronunciamento della Commissione per il controllo sui rendiconti dei partiti, che si è dichiarata impossibilitata a svolgere le verifiche previste dalla legge sui bilanci del 2013.

SEMAFORO ROSSO Una relazione che si è conclusa con la proposta di autorizzare il pagamento della tranche di contributi in scadenza il 31 luglio «esclusivamente dopo che la Commissione avrà comunicato ai presidenti delle Camere» il proprio «giudizio circa la regolarità e la conformità alla legge dei rendiconti dei partiti» oltre alle «eventuali sanzioni che, in esito a tale controllo, avesse deciso di irrogare». Conclusioni ratificate dall’Ufficio di presidenza (tutti a favore tranne il Movimento 5 Stelle) che, almeno per ora, lasciano a bocca asciutta le tesorerie delle forze politiche. Le quali, a questo punto, per incassare possono solo sperare in una modifica legislativa come quella proposta dalla deputata del Pd Teresa Piccione con un emendamento che, di fatto, cancellando l’obbligo dell’esame di fatture e scontrini allegati ai bilanci, permetterebbe ai partiti di incassare la rata bloccata dall’Ufficio di presidenza.

IN NOME DELLA LEGGE Per motivare la sua proposta Melilla è partito dall’analisi della normativa vigente (in vigore dal 2012) che, a differenza della precedente, non contiene disposizioni che subordinino il pagamento delle rate dei contributi pubblici ad un previo giudizio di regolarità da parte della Commissione. A partire dall’esercizio 2013, quello cui si riferiscono i ratei di luglio 2015, la Commissione, una volta ricevuti i rendiconti, contesta eventuali irregolarità ai partiti che a loro volta forniscono elementi di chiarimento, informazione o integrazione. Al termine del contraddittorio la Commissione emette il proprio giudizio sulla regolarità o meno del rendiconto, mettendone a conoscenza i presidenti di Camera e Senato. Gli esiti del controllo costituiscono presupposto per l’irrogazione, da parte della Commissione, delle sanzioni pecuniarie previste dalla legge a fronte di specifiche irregolarità nei rendiconti esaminati. Le sanzioni pecuniarie sono quindi comunicate ai presidenti dei due rami del Parlamento che, per i fondi di rispettiva competenza, provvedono a decurtare dalle rate dei rimborsi per l’anno in corso l’ammontare delle sanzioni stesse. Ed è questo il punto della questione. Perché, ha detto Melilla esponendo la sua relazione, «in assenza della comunicazione circa l’irrogazione di eventuali sanzioni, non è possibile determinare l’ammontare esatto della rata da corrispondere al partito».

TESORIERI BOCCIATI Anche perché, le sanzioni previste dalla legge variano a seconda delle infrazioni commesse. Si va dalla perdita dell’intero contributo pubblico per l’anno in corso qualora i partiti non abbiano trasmesso il rendiconto oppure lo abbiano trasmesso privo di alcuni documenti specificamente richiesti dalla legge, a sanzioni pecuniarie di diverso ammontare, commisurato alla gravità dell’infrazione, per i partiti che non abbiano ottemperato a specifiche prescrizioni disciplinate dalla legge, in particolare in tema di contenuto dei rendiconti. In questo secondo caso, la sanzione non può superare i due terzi dell’importo complessivo del contributo pubblico. Un quadro legislativo di fronte al quale i segretari amministrativi dei partiti avevano provato ad avanzare una proposta. Quella di corrispondere, in attesa del giudizio della Commissione, un terzo delle somme spettanti. Cioè l’importo che, stante la misura massima della sanzione fissata in due terzi del contributo, non potrebbe essere comunque decurtato anche nel caso in cui fossero successivamente riscontrate delle irregolarità nei rendiconti. Proposta bocciata da Melilla. Perché,  ha osservato il segretario dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio, per metterla in pratica è assolutamente necessario verificare il ricorrere contestuale di un insieme di presupposti. A cominciare dal fatto «che i partiti abbiano regolarmente adempiuto all’obbligo di presentazione del rendiconto 2013 e dei documenti richiesti» dalla legge per escludere la sanzione massima consistente nella perdita dell’intero contributo.

PARTITI AL VERDE Non solo. In linea teorica, non potrebbe escludersi che, dopo l’eventuale pagamento di un terzo della rata 2015, «la Commissione possa ritenere che sussistano i presupposti per irrogare comunque la sanzione massima della decurtazione integrale dei contributi». Cosa che potrebbe accadere, ad esempio, qualora la Commissione, esaminato il contenuto del rendiconto, «lo ritenesse talmente inconsistente da non consentirne la stessa riconducibilità alla nozione minima di “rendiconto” prevista dall’ordinamento». Oppure quando «la documentazione trasmessa dai partiti» venga ritenuta dalla Commissione «del tutto incongruente o inadeguata rispetto alla finalità di giustificare i dati esposti nei rendiconti, i quali potrebbero pertanto essere giudicati tout court privi di significato». Ipotesi che esporrebbero l’amministrazione, ha concluso Melilla, a «rischi di dispersione delle risorse» e alla prospettiva di dover intraprendere «eventuali procedure di recupero» che potrebbero rivelarsi «aleatorie nel risultato». Insomma, almeno per ora, i partiti possono rimanere al verde.

@Antonio_Pitoni

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