Le donne vivono in genere più a lungo degli uomini. Quali siano le ragioni scientifiche della loro maggiore longevità non è ancora chiaro, ma biologi e genetisti, grazie ai progressi compiuti negli ultimi anni nella comprensione del funzionamento del codice della vita, hanno iniziato a trovare le prime risposte.

Secondo uno studio di un team di ricercatori Usa della Southern California University, una delle possibili spiegazioni è la maggiore mortalità degli uomini per problemi cardiovascolari.

Gli studiosi americani, in un articolo pubblicato sui “Proceedings of the national academy of sciences (Pnas)” (leggi), hanno esaminato i dati di mortalità relativi a più di 1700 persone, nate tra il 1800 e il 1935 in 13 Nazioni sviluppate. E hanno osservato che il fenomeno ha avuto inizio a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, con il miglioramento delle condizioni di vita e i progressi della medicina, per esempio nella prevenzione delle malattie infettive.

“Il dato che emerge dalla nostra ricerca – spiega Caleb Finch, coautore dello studio – è che la mortalità per cause cardiovascolari ha un diverso impatto tra uomini e donne, specialmente nella mezza età e nei primi anni della terza età”. Le maggiori differenze sono, infatti, concentrate tra i 50 e i 70 anni, e scompaiono bruscamente dopo gli 80 anni. Inoltre, se si prendono in considerazione i dati relativi agli adulti con più di 40 anni di età, si nota che negli individui nati dopo il 1880 i tassi di mortalità femminile sono diminuiti con una velocità del 70 per cento superiore a quella maschile.

In base alle conclusioni dei ricercatori Usa, nel corso dell’ultimo secolo il miglioramento delle condizioni di salute generali della popolazione ha fatto emergere, tra gli individui di sesso maschile, l’esistenza di un maggior rischio genetico legato a problemi cardiovascolari. “Ciò che rimane da capire, adesso – sottolinea Caleb Finch – è quale sia l’origine di questa differenza, e che peso abbiano i diversi fattori biologici congeniti o di protezione, come gli ormoni. Per questo – conclude l’esperto – saranno necessari nuovi studi in diversi Paesi, per poter correlare meglio questa maggiore vulnerabilità dal punto di vista genetico e cellulare ai dati sanitari degli individui di età più avanzata”.

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