Con una laurea conseguita presso l’Università del cinema e della televisione di Teheran, Jafar Panahi, uno tra i registi iraniani più famosi e apprezzati oltre i confini del suo Paese, ha avuto modo di affiancare il grande Abbas Kiarostami come suo assistente sul set di “Sotto gli ulivi” nel 1994 per poi esordire come regista de “Il palloncino bianco”, suo primo lungometraggio uscito l’anno successivo e sceneggiato da Kiarostami stesso. Un’opera che convinse la critica di tutto il mondo, tra cui quella del Festival di Cannes che gli assegnò la Caméra d’or. Una carriera costellata di premi, tra cui un Leone d’oro a Venezia e il Pardo d’oro a Locarno, e allo stesso tempo travagliata per via di un regime, quello iraniano, che lo ha sempre riconosciuto come una minaccia, arrestandolo nel 2010 per aver partecipato ai movimenti di protesta contro l’elezione di Aḥmadinejād. Rilasciato su cauzione grazie alla mobilitazione delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e di tutto il mondo del cinema a livello internazionale, Panahi si è visto comunque precludere la possibilità di dirigere, scrivere e produrre film, oltre che di viaggiare e rilasciare interviste sia in patria che all’estero per 20 anni.

Un divieto che non gli ha però impedito di realizzare il suo ultimo film, “Taxi Teheran”, premiato con l’Orso d’oro allo scorso Festival di Berlino, girato in assoluta clandestinità e in uscita in Italia il 27 agosto, grazie alla Cinema, la nuova distribuzione di Valerio De Paolis. Un lungometraggio autoprodotto, girato dallo stesso Panahi, che, montando la telecamera sul cruscotto del suo taxi giallo, ha percorso le animate strade di Teheran, accompagnato dai molteplici passeggeri che susseguendosi e confidandosi con il regista, delineano il ritratto della società iraniana di oggi. Ognuno di loro è un attore, che come Panahi stesso ha rischiato nel prendere parte al film che purtroppo, proprio per questo motivo, è privo di credits. Persone con alle spalle storie tra le più disparate che, tra risate e umorismo, fanno emergere i tratti di un Paese tanto affascinante quanto controverso. “Sono un cineasta, il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film e quando mi ritrovo con le spalle al muro, l’esigenza di creare si manifesta in modo ancora più pressante, devo quindi continuare a filmare, a prescindere dalla circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo”, ha dichiarato Panahi, che per assecondare l’idea di girare un film completamente in esterni, pur dovendo sottostare alle costrizioni imposte dal governo, ha utilizzato delle Black Magic, videocamere ad alta definizione e di ridotte dimensioni che ha potuto nascondere all’interno di diverse scatole di fazzoletti, per non attirare l’attenzione.

Un espediente che gli ha permesso di preservare la dimensione documentaristica dell’azione che si svolgeva al di fuori della vettura, senza mai rivelare le riprese in atto. Viste le ridotte dimensioni del taxi e l’installazione di tre telecamere, il regista ha dovuto dirigere da solo dall’inquadratura al suono, passando per le luci, rese possibili grazie a un grande tetto apribile, fino alla guida stessa del veicolo, oltre alla recitazione degli attori, tutti non professionisti. Il risultato è un film che dimostra tutto l’amore di Panahi per la settima arte, per il suo Paese e per il suo pubblico, che da sempre continua a seguirlo.

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