Il modo migliore che ha un festival per lasciarsi ricordare è affidare la chiusura ad un nome che è una garanzia. Non è un caso, quindi, che due rassegne italiane come il Collisioni di Barolo e il Pistoia Blues abbiano scelto proprio Sting per le loro serate conclusive.
C’erano circa 9mila persone ieri sera a Piazza Duomo, a Pistoia, ad attendere l’ex bassista dei Police. Il main stage era insolitamente spoglio e privo di scenografie. Qui abbiamo capito che ci saremmo trovati a vivere uno show senza molti fronzoli, dove a pesare sarebbero state le canzoni e il suo interprete.

Sulle prime note di “If I Ever Lose My Faith In You” scoppia un boato in Piazza Duomo. Dà i brividi scoprire che sta cantando una voce che ha lo stesso mordente di vent’anni fa. Il sempreverde Gordon Sumner, che adesso tiene la barba come Bon Iver, sfoggia anche un fisico da oplita spartano che imbraccia un basso consumatissimo. Ad accompagnarlo c’è la sua fedele band, con Dominic Miller alla chitarra, David Sancious alla tastiera (già presente nei primi due dischi di Springsteen) e il batterista italo-americano Vinnie Colaiuta (che a 22 anni già suonava per Frank Zappa). Nelle retrovie troviamo, poi, la corista Jo Lawry e il violinista Peter Tickell.

Arriva a stretto giro “Every Little Thing She Does Is Magic”, solo il primo dei tanti successi dei Police che proporrà in scaletta. Già, perché su 19 pezzi in setlist, 10 sono dei Police. Non si è risparmiato “il Pungiglione” a fare incetta nel passato, forse anche per una sorta di rispetto verso quel capitolo turbolento, eppure grandioso, della sua carriera. Dal canzoniere reggae-punk dei Police ha pescato anche la bella – e poco nota – “Driven To Tears“, con dei bei riff “al metallo” di Miller, affiancata per opposizione alla dolcezza di “Fields of Gold”. La doppia anima di ex comprimario dei Police e di solista trova ancora una metafora nella coabitazione a stretto giro di “Message in A Bottle/Shape of My Heart”.

La scaletta, densissima di successi, offre spazi ad assoli, ad intensi dialoghi basso-tastiera così come a duelli basso-violino: qui apprezziamo tutto il talento della squadra scelta dal bassista di Wallsend. Emblematica è stata la coda strumentale posta tra il finale di “De Do Do Do De Da Da Da” e l’inizio di “Roxanne”, con una jam session che ha coinvolto a turno tutti i componenti della band, compreso un assolo in 7/8 di Colaiuta. Oppure l’inciso vocale di Jo Lawry su “The Hounds of Winter”, che lacera la pelle per la sua bellezza.

L’ottimo lavoro come solisti e come squadra, la grande generosità di Sting nel lasciare spazio ai suoi “compagni”, la capacità di far virare genere musicale all’interno dello stesso pezzo, sono tutti elementi che contribuiscono a regalare uno spettacolo unico. Una vera chicca è l’interpolazione ben riuscita di “Ain’t No Sunshine”, la hit di Bill Withers che Sting suona on stage dal 1991, all’interno di “Roxanne”. L’altra perla arriva verso la fine, con il superbo arrangiamento di “Next to you”. Le chiacchiere in italiano con il pubblico, tra un pezzo e l’altro, non sono mancate per tutta la durata del live. Sting vuol dare ad intendere che ha una seconda casa in Valdarno, o più semplicemente ama stabilire un ponte emotivo con la piazza. Non è un animale da palcoscenico, ma il suo ascendente sulle migliaia di persone sottopalco è qualcosa di straordinario. Dopo l’esecuzione struggente di “Fragile”, che chiude il concerto, tutti possono dire la stessa frase che fu pronunciata da un personaggio in un episodio di Ally McBeal: “Sting ha cantato per me!”

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