Quando erano studenti universitari si sono resi conto che nessuno, nell’alto Adriatico, si era mai soffermato a monitorare la popolazione dei delfini, apicali nella catena alimentare marittima e perciò “sentinelle” del benessere dell’ecosistema marino. Così, hanno deciso di farlo loro. Senza fondi né finanziamenti, ma con una barca presa in prestito da un circolo velico e la voglia di colmare una lacuna nella letteratura scientifica italiana. Sono Nicola Aurier, Rebecca Andreini, Michela Spreafico e Carlo Pezzi, quattro ricercatori di età media 30 anni, provenienti dalle università di Parma, Bologna e Milano, che a maggio hanno deciso di avviare il progetto Delfini Bizantini. Un team di ricerca, che è anche un’organizzazione no profit, completamente autofinanziato, che da settimane si dedica al monitoraggio dei tursiopi allo scopo di raccogliere dati utili alla loro salvaguardia, tracciando al contempo un quadro globale della salute dell’ecosistema del mare.

“Il progetto – racconta Andreini – è nato quando ci siamo resi conto che c’era un gap nella letteratura scientifica sull’alto Adriatico: nessuno, infatti, ha mai pubblicato studi sulla popolazione dei delfini nell’area, quando invece la comunità scientifica avrebbe bisogno di dati simili”. Il monitoraggio dei tursiopi, infatti, è indicatore anche dell’ambiente in cui vivono: “Possiamo capire se, ad esempio, i livelli di inquinamento costituiscono una minaccia per le specie marittime”. Così, il team si è rimboccato le maniche, e per svolgere la propria attività di ricerca ha chiesto la collaborazione della società civile: “Abbiamo domandato ai pescatori, ai diportisti e a tutti coloro che trascorrono molto tempo in mare di segnalarci gli avvistamenti di delfini, così da delimitare su una carta nautica i punti dove concentrare i nostri sforzi di ricerca. Poi ci siamo rivolti ai circoli nautici del ravennate, che ci hanno prestato una barca, e abbiamo iniziato il monitoraggio”.

Due o tre uscite in mare settimanali, “dipende dal meteo e dalla disponibilità dei circoli di prestarci la barca”, per osservare i delfini e identificarli fotografando la loro pinna dorsale, che in pratica è come una carta di identità: “Tramite un software americano archiviamo l’immagine ricostruendone il profilo – spiega Andreini – e così riusciamo a riconoscere l’animale quando lo incontriamo di nuovo”. Accumulando informazioni chiave quali la stanzialità, la presenza di fonti di disturbo, naturali o antropiche, o di inquinamento. Dati che poi vengono incrociati con le informazioni in possesso dei centri di ricerca croati e sloveni, che i delfini dell’alto Adriatico li monitorano già da anni, per valutare il raggio degli spostamenti dei tursiopi.

“Lo studio, condotto rigorosamente nel rispetto dell’accordo Accobams, la convenzione tra paesi del Mediterraneo per la tutela dei cetacei, serve per elaborare poi misure concrete utili alla preservazione della specie – racconta la ricercatrice – noi analizziamo il comportamento degli animali e il loro habitat, compresa la torbidità e la temperatura dell’acqua, e tramite questo riusciamo a capire se l’Adriatico, nonostante i cambiamenti che subisce, naturali o legati all’intervento dell’uomo, come traffico, pesca e inquinamento, continua a essere ottimale per questa specie. Il che, poi, a cascata, ci permette di verificare lo stato di salute di tutto l’ecosistema marino: se, infatti, è in grado di ospitare un predatore di queste dimensioni, significa che è sano”.

Ciò che manca al team sono i fondi, da qui la scelta di ricorrere al crowdfunding. “La facoltà di Veterinaria dell’Università di Bologna ci permette di utilizzare le sue apparecchiature tecniche, che altrimenti non potremmo permetterci di acquistare – spiegano i ricercatori – fondi però non siamo riusciti ancora a trovarne. La ricerca purtroppo in Italia non ha soldi, e non solo quella veterinaria. Un peccato perché c’è molto da fare nel nostro paese, sia in termini di educazione ambientale, sia di comportamento in mare”.

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