Si conclude una stagione problematica per l’audiovisivo italiano. Al cinema le commedie che negli anni scorsi gli hanno garantito il nerbo degli incassi mostrano la corda nel rapporto col pubblico. Pubblico che non frequenta meno di prima le sale cinematografiche, ma stavolta ha inclinato più del solito verso il prodotto altrui, a partire da quello americano che offre un po’ di tutto: dal genere guerre stellari formato famiglia (I guardiani della Galassia), al science fiction un po’ cerebrale (Trascendent) alla biografia esemplare (The imitation game) e via snocciolando.

Detto in poche parole, se non arricchiamo il catalogo dei generi che produciamo rischiamo di disseccare il mare anche attorno al nostro cinema d’autore, che potrebbe ritrovarsi come una avanguardia senza un esercito che le venga appresso.

In televisione è stato l’anno de Il Segreto, una telenovela ben concepita e discretamente fatta – considerato che si tratta di un genere da quattro soldi – che sta cacciando perfino dal prime time la produzione di fiction di Mediaset (perché, del resto, spendere soldi per produrre emozioni narrative, magari un po’ banali, ma efficaci, che il mercato offre a prezzi convenienti?). A ben vedere, il problema strutturale è il medesimo, sia per il cinema che per la tv: l’autarchia è, alla lunga, impossibile.

In tv, se produci generi popolari e punti tutto sull’effetto “identificazione” da parte del pubblico nazionale, prima o poi quell’effetto svanisce perché ormai gli amori, i tradimenti, le vendette, i ritrovamenti e, insomma, tutto il repertorio strutturale del romanzo d’appendice, sono sempre più allineati a uno standard globale. Così il pubblico a casa finisce col ritrovarsi perfettamente nelle storie di Pepa e di Puente Viejo, paesello spagnolo del primo novecento, senza soffrire in alcun modo della doppia estraniazione, nazionale e temporale.

Ma allora, se davvero tutto il mondo tende ad essere paese, quel che conta non è che la “storia” sia la “tua” storia, ma come la realizzi, la perfezione delle sceneggiature, la accuratezza del casting, l’impiego di ogni risorsa tecnica ed effetto illusionistico. Perché? Perché così quella storia, al di là della ambientazione e del plot, diventa universale anche nel linguaggio, cioè nella forza espressiva, e quindi capace di creare il suo spazio non solo nel tuo mercato interno, dove subisci l’assedio del prodotto altrui, ma nel mercato globale, dove da assediato riesci a convertirti in assediante. E lo stesso, nessuno ce lo leva dalla testa, vale per il cinema.

Dunque, la questione è passare dalla produzione “local” a quella “global” che comprende anche gli approcci “glocal”, cioè storie “proprie”, ma universalizzate, come il grosso della produzione americana. Ma siccome questo approccio richiede investimenti grandiosi e una generale “riallocazione” di risorse e professioni all’interno del sistema audiovisivo, il tutto è facile a dirsi, ma difficilissimo da farsi, anche se irrinunciabile perché, dignità culturale a parte, ne dipendono decine di migliaia di posti di lavoro (quelli attuali e quelli, moltissimi, che un nuovo sviluppo porterebbe con sé).

Impresa impossibile da realizzare senza una convergente visione strategica di tutti gli attori principali del sistema Italia: poteri politici, broadcaster televisivi, autori e produttori dell’audiovisivo. La vera posta della riforma Rai è del resto tutta qui: la sua riorganizzazione in funzione dello sviluppo della produzione dell’intero sistema (con le chiacchiere sul pluralismo a fare da contorno, per accontentare i giornali). Una vera “mission” che, del resto, non sarebbe tale se non fosse anche un po’ “impossible”.

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