La Musica è Lavoro

Roberto Angelini: “Negli ultimi quindici anni è cambiato tutto. Non si rischia più nulla, ma questo ha favorito la realtà underground”

Dal successo di massa di "Gattomatto" all'impegno come produttore e musicista di oggi, il chitarrista della Gazebo Band ha attraversato tutta la crisi del mercato discografico. Una crisi evidente che però, a suo parere, potrebbe aver favorito chi conserva un rapporto artigianale con la musica

di Diletta Parlangeli

Sì, la musica è cambiata. Sì, l’industria è cambiata. I mezzi, pure. Esistono solo due modi di affrontare la faccenda: soccombere, o sfruttare l’onda. “Vale per tutto: quando si verifica un disastro, non puoi che ricostruire”: la pensa così Roberto Angelini, musicista, cantautore, autore, produttore (di musica, e ora anche di sushi), che di strada dietro di sé ne ha un bel po’.
Con “Il Sig Domani” portò a casa il premio della critica a Sanremo 2001. Ma è con il tormentone “Gattomatto”, qualche anno dopo, che fece quello che si dice “il botto”. Oggi, quasi si fa fatica a ricordarlo per quella che fu una hit: troppe estati sono passate, e troppi cambi di pelle. Sempre sue, per carità. Il chitarrista – nell’ultimo anno nei tour di Fabi-Silvestri-Gazzè ed Emma – ha fondato un’etichetta nel 2008, la FioriRari, e oltre a sfornare dischi da cantautore, sempre più centrati, produce anche altri artisti. Cuore della Gazebo Band (il programma di Diego Bianchi, in onda su Rai3), pensa che lo stravolgimento dell’industria discografica non abbia ridotto le possibilità di lavorare con la musica. Anzi, a qualcuno potrebbe aver giovato.
“È cambiato tutto in quindici anni: quando parlo degli esordi mi sento come un nonno che racconta le storie della Guerra Mondiale!”.

Bene, partigiano: cominciamo.
Ho vissuto la nascita dei cd e ora ne vedo la morte. Adesso produci in casa, pubblichi su iTunes e guardi su YouTube, dopo averlo comunicato su Facebook. Più che far uscire un album, pensi a fare uscire un singolo: come negli anni Sessanta.

E tutto questo ambaradan ha cambiato gli assetti.
Le grandi etichette si sono associate ai talent, e l’industria è cambiata: da grandi palazzi, scrivanie dorate e business, agli ufficetti. Non parliamo più di aziende floride con i presidenti-artisti, che facevano gli scopritori di talenti. Adesso si sceglie tra dirigenti che hanno già salvato i bilanci di qualche altra azienda, magari di elettrodomestici. Non so se mi segui.

Eccome.
Nessuno rischia più niente, decide il pubblico da casa, e si produce quello che già piace. Tanto se va male, l’anno dopo ci sarà un altro su cui puntare.

E tutti gli altri? Tanti cari saluti?
Se vogliamo, questo meccanismo ha facilitato le realtà underground.

Molti cercano il passaggio sui grandi network per validare il successo.
Quelle sono solo pippe di chi fa musica, che servono a dimostrare ai genitori che allora è vero, che combinavano qualcosa. Non è necessario: ci sono gruppi che riempiono i locali e hanno carriere floride, senza fare quel tipo di percorso. Sono quelli che riescono ad avere un approccio concreto, quasi da artigiano, al mestiere.

Beh, qualche responsabilità il pubblico ce la dovrà pure avere, in tutto questo…
Il passaparola. È ancora la cosa più forte di qualsiasi banner o riuscita campagna pubblicitaria. Io in questi dieci anni ho fatto due dischi, eppure le persone tornano, e sono sempre di più (il che mi lascia stupefatto). Le vedi in faccia, e si fidano. Se fai altri progetti, si incuriosiscono. È nostra la responsabilità di dar loro un’alternativa.

Da produttore, come selezioni?
Mi ritengo un produttore atipico, diciamo che sono più un preparatore.

Se dico “coach”, è subito talent.
Ecco, diciamo che sono un’alternativa al coach del talent.

Consigli?
Essere manager di se stessi, mettere su una bella pagina Facebook, che veicoli una comunicazione che assomigli rigorosamente a chi la rappresenta. L’importante è capire chi si è e fare qualcosa che ti assomigli.

E lo dice uno che, a grandi linee, ha quasi fatto un percorso inverso: dal mainstream alla scena indipendente, per poi rientrare dalla porta principale.
Bisogna sapere accettare di aver sbagliato strada. Io mi sono anche divertito all’epoca, ma quell’immagine non assomigliava a niente delle cose che avevo sempre desiderato.
Non era il mio sogno, ma quello di qualcun altro. Andava solo trovata la strada giusta: un lavoro duro. Ora però, tutto quello che faccio mi assomiglia sempre. Do alla musica un valore assoluto.

Come cantautore?
Non sono ossessionato da quella dimensione, ma succedono delle cose strane. Per esempio, mi è capitato di scrivere un testo per Gloria Bennati, coinvolto dagli amici Planet Funk. Si è creato un gruppo di composizione con base a Londra e molti brani sono piaciuti con la mia voce. Andrà a finire che costituiranno il mio prossimo disco, scritto a tre mani.

Allora fughiamo i dubbi: non ti sei dato alla ristorazione finanziando un locale di sushi perché di musica non si campa.
Ahah, no! È una storia romanticissima. Questo signore, che si chiama Kiko, è stato partecipe, negli anni, di molti momenti cruciali della mia vita. L’incontro con Sinigallia prima della firma con Virgin, la nascita del mio primo amore, la proposta per la Gazebo Band. Quando mi ha detto che cercava un socio, gli ho detto “beh, mi sembra anche di averlo scritto in una canzone che avrei aperto un giapponese…” (‘Benicio del Toro’, ndr). Ho prodotto degli artisti, ora produco un cuoco.

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