“Non era davvero il caso di dare al pubblico una rappresentazione leggera e spensierata con lustrini e pennacchi…”. Augusto Fornari è il regista de La vedova allegra, in scena al teatro lirico Carlo Felice di Genova dal 18 luglio (repliche fino al 25). Ha ideato una versione in chiave moderna, quasi di cronaca, della celeberrima opera di Franz Lehàr, rappresentata a Vienna per la prima volta nel 1905. La storia d’amore fra Hanna, vedova di un ricchissimo banchiere, “costretta” dalla ragion di Stato a sposare il conte Danilo (peraltro i due si amano) è stata trasferita nel tempo alla contemporaneità. E trapiantata all’interno della nota querelle che contrappone i 12 teatri italiani. In perenne lotta fra loro per aggiudicarsi le striminzite sovvenzioni che lo Stato elargisce alla lirica.

Fornari, 46 anni, romano, ha lunga esperienza teatrale (viene dalla scuola di Proietti) e cinematografica. Ha lavorato con Scola, Avati, Woody Allen e si è disimpegnato anche con le fiction televisive. “Fatte le debite proporzioni ho ricreato un’operetta brechtiana – spiega Fornari a ilfattoquotidiano.it – che denuncia una vicenda italiana dei nostri giorni. Nel prologo che ho inserito per accompagnare gli spettatori alla novità di una Vedova allegra ambientata ai tempi nostri, addirittura nello stesso teatro genovese dove si tiene la rappresentazione, ho evocato la celebre frase di un ministro (Tremonti, ndr) che disse che con la cultura non si mangia. La ripetono i governatori dello Stato, immaginario, di Pontevedro, dove si svolge la vicenda originale, ai quali faccio dire che era uno Stato dedito all’arte e alla bellezza, improvvisamente avvolto, non si sa perché, da una nube nera. La vaudeville di Lehàr diventa il pretesto per chiedersi se davvero in Italia la cultura non dà da mangiare. La risposta ovviamente è no”.

“Portiamo in scena una sorta di Quarto stato del teatro: tecnici, costumisti, elettricisti si aggirano tra gli attori. Il direttore d’orchestra dialoga con me. E’ un modo per dire: solo chi non ha occhi per vedere può negare l’esistenza dell’indotto che in teatro impegna tante persone e suscita valori che andavano messi in luce”

Insomma, spiega il regista, con lo scenografo Enrico Musimich “portiamo in scena una sorta di quarto stato del teatro, en plein air. Tecnici, la capo-costumista Elena Pirino, elettricisti si aggirano in mezzo agli attori. Il direttore del coro e l’orchestra dialogano col sottoscritto che, oltre al personaggio di Niegus, interpreta la voce che tira le fila del racconto. E’ un modo per dire: solo chi non ha occhi per vedere può negare l’esistenza dell’indotto che in teatro impegna tante persone e suscita valori che andavano messi in luce”. Fornari rivela di essere riuscito, miracolosamente, a superare quei lacci e lacciuoli burocratico-sindacali che impastoiano qualunque rappresentazione teatrale. Un ginepraio in cui qualunque mansione o intervento deve essere concordata, approvata e pagata. “I lavoratori del Carlo Felice hanno prestato gratuitamente la propria opera extra. Una risposta spettacolare che ha mostrato la grande disponibilità delle maestranze. L’idea è subito piaciuta al direttore artistico, Giuseppe Acquaviva, che mi ha dato subito via libera. La replica estiva di un’operetta notissima è così diventata un manifesto dei lavoratori del teatro lirico genovese”.

Nella trasposizione moderna di Fornari la protagonista, la vedova Anna Glavari diventa Hanna Brayfus Glavari, con trasparente allusione al Fus, il Fondo unico dello spettacolo, e al ministro della cultura Massimo Bray che nel 2013 mise ordine nel delirio dei conti dei teatri lirici, imponendo tuttavia severe clausole, la più stringente il pareggio di bilancio nel 2016. Detto en passant il Carlo Felice ancora non ha visto un euro dal Fus, e barcolla anche a causa di precedenti buchi di bilancio. Il sovrintendente Maurizio Roi ha parlato di “situazione difficilissima”. “Speriamo che i soldi arrivino a settembre – ha aggiunto – e che il termine per il pareggio di bilancio sia spostato a dopo il 2016”. Il conte Danilo Danilovich si trasforma nel conte Carlo Felice e gli altri personaggi dell’operetta assumono i nomi, evocativi, di Lascala e Lafeniche, abbandonando le identità originali di Cascada e Saint-Brioche, i due pretendenti di Hanna. Camille de Rossignol, la moglie dell’ambasciatore di Pontevedro, barone Zeta, assume il nome di Camile de Petruzzel (il teatro di Bari) e non si sottrae alla tresca con la moglie del barone Zeta, Valencienne. Le ballerine che allietano la festa da Chez Maxim (trasfromato nel foyer del Carlo Felice) non sono più Frou-Frou, Jou-Jou ma Fedora, Mimì, Turandot, Carmen, le eroine degli immortali drammi in musica.

Fornari spiega ancora: “La vicenda è ambientata non a Parigi ma in questo stesso teatro. E la vedova non ha perduto il marito banchiere, ma il marito ministro dello spettacolo. Che non c’è più – non diciamo che sia morto – e che dunque lascia in sospeso l’agognato contributo ministeriale”. Si accende quindi attorno alla bella Hanna Brayfus Glavari il tourbillon dei pretendenti – i teatri lirici al posto dei titolati nobiluomini immaginati da Lehar – ansiosi di disputarsi i quattrini che lo Stato elargisce, invero con parsimoniosa cautela. Come andrà a finire lo si può immaginare. L’amore qualche volta vince persino sul denaro.

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