di Stefania Mangione*

Il salario minimo legale è un trucco.

L’intenzione del governo Renzi, esplicitata anche all’articolo 1, comma 7, lett. g) della legge delega 183/2014 (sul punto e per il momento rimasta inattuata), di introdurre un salario minimo orario fissato per legge, ha due finalità: una dichiarata, ovvero elevare ad un livello dignitoso le retribuzioni dei cosiddetti lavoratori poveri e una non dichiarata, cioè assestare il colpo di grazia al contratto collettivo nazionale di lavoro.

Il primo obiettivo appare difficilmente perseguibile attraverso una misura del genere, al contrario del secondo.

Provo a spiegarmi: nel nostro ordinamento esiste già un “salario minimo orario”, quello dell’articolo 36, primo comma della Costituzione che garantisce a ciascun lavoratore una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

I giudici del lavoro (e gli organi ispettivi), in oltre 60 anni di applicazione e interpretazione della norma costituzionale, hanno sempre affermato che la retribuzione dell’articolo 36 è quella prevista dai contratti collettivi nazionali che, solo per questa parte, sortiscono effetti per tutti e, quindi, anche al di là degli iscritti alle organizzazioni stipulanti.

In altri termini, anche l’imprenditore che non applica alcun contratto collettivo – perché, ad esempio, non è iscritto a un’associazione datoriale –  è obbligato a garantire ai propri dipendenti quel minimo di retribuzione fissata convenzionalmente dai contratti collettivi nazionali. Di più: quest’obbligo ha costituito la principale leva all’applicazione del contratto collettivo da parte di datori di lavoro che, comunque, non avrebbero potuto pagare i propri lavoratori meno di quanto previsto da quel contratto.

Il fatto che ci siano settori, ambiti o territori nei quali il salario dei lavoratori è al di sotto di quei minimi è già oggi illegittimo e pone, semmai, un problema di efficacia e di insufficienza di risorse dell’apparato di controllo.

Se dunque la misura non è in grado di sortire il dichiarato effetto positivo, al contrario essa può rivelarsi efficace nel perseguire l’obiettivo non dichiarato, ovvero la cancellazione del ruolo e della funzione principale del contratto collettivo nazionale (quella di stabilire trattamenti minimi, comuni a tutti i lavoratori di un determinato settore), con conseguente abbassamento delle retribuzioni medie.

L’introduzione di un salario minimo per legge sottrarrebbe al contratto collettivo nazionale la competenza sulla retribuzione minima inderogabile, incentivando la fuga delle imprese dal contratto collettivo nazionale che, invece, come ha recentemente ribadito la Corte Costituzionale rimane la “fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive” (Corte Cost. n. 51/2015).

La scelta, del resto, soddisfa le richieste di Confindustria e quelle della famosa lettera della Bce dell’estate 2011 (nella quale si chiedeva di superare la centralità del contratto collettivo nazionale a beneficio di quello aziendale, anche sotto il profilo delle dinamiche retributive).

Altra cosa è discutere di un compenso minimo per i lavoratori autonomi e parasubordinati ai quali non è applicabile l’articolo 36 della Costituzione (opzione già presa in considerazione nel disegno di legge sull’istituzione del reddito di cittadinanza e sulla delega al governo per l’introduzione del salario minimo orario, presentato nel 2013 dal Movimento 5 Stelle), con una precisazione: per i lavoratori a progetto, la riforma Fornero ha introdotto un equo compenso, prevedendo che esso non debba essere inferiore a quello previsto dai minimi tabellari del contratto collettivo nazionale.

Peccato che proprio il lavoro a progetto sia stato abrogato dal recentissimo d.lgs. 81/2015 sul riordino delle tipologie contrattuali entrato in vigore lo scorso 25 giugno, senza che i (pochi) collaboratori coordinati e continuativi genuini post Jobs act – la cui attività lavorativa non è misurabile sulla base dell’unità di tempo – possano in concreto vedersi riconosciuto alcun compenso orario minimo.

Tutt’altro ragionamento varrebbe, infine, rispetto alla proposta di un salario minimo europeo, volto ad evitare il cosiddetto dumping salariale tra gli Stati membri alla ricerca del mercato del lavoro più conveniente, ma il tema non sembra appassionare né il governo, né tanto meno gli organi decisionali dell’Unione Europea e, tuttavia, se ne discuterà a settembre prossimo nell’ambito di un’iniziativa su lavori e welfare.

* Sono avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio della parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL News.

Articolo Precedente

Il lavoro non è un posto dove andare

next
Articolo Successivo

Ammortizzatori, tappato buco contratti solidarietà. “Mancano 300 milioni per cassa integrazione”

next