L’accordo di Vienna sul nucleare iraniano si colloca nel più ampio quadro del ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente, soprattutto in relazione ai due tradizionali alleati americani nell’area: Israele e Arabia Saudita. Da parte israeliana è arrivato, immediatamente dopo l’annuncio della firma, la reazione indignata di Benjamin Netanyahu, che ha subito convocato il consiglio di difesa del governo. “Si tratta di un errore storico per il mondo – ha spiegato Netanyahu – l’Iran riceverà centinaia di miliardi di dollari che alimenteranno la sua macchina del terrore e di aggressione attraverso tutto il Medio Oriente e il globo”. Più di basso profilo, per il momento, la reazione da Riyad. Dove però un diplomatico descrive come l’intesa come “estremamente pericolosa” e tale da costringere anche l’Arabia Saudita a perseguire un proprio programma nucleare.

Iniziamo da Israele. Il ministro della difesa Moshe Yaalon ha già avvertito che “ovviamente continuiamo a prepararci alla nostra difesa”. Nel denunciare l’intesa come “catastrofica”, il governo israeliano fa quindi notare di essere pronto a continuare la sua politica nei confronti di Teheran come se l’accordo di Vienna non ci sia stato. L’espressione “continuiamo a preparaci alla nostra difesa” ha tra l’altro un significato molto preciso. Gerusalemme non esclude alcuna opzione, neppure un’eventuale azione militare contro Teheran. Il ragionamento delle autorità israeliane, espresso per esempio da Naftali Bennett, ministro dell’educazione e leader dell’estrema destra di Bayit Yehudi, è che “nel giro di 10-15 anni l’Iran avrà comunque l’arma atomica”. Di qui il messaggio che fonti israeliane hanno fatto passare ai media internazionali in questi giorni: “Faremo pressioni sul Congresso USA perché respinga l’accordo”.

Oltre l’apparenza intransigente, l’accordo USA/Iran rappresenta comunque una indubbia sconfitta per Netanyahu. Una sconfitta personale. Per almeno due decenni, Netanyahu ha promosso la sua figura e carriera politica grazie a una promessa: l’Iran non avrà mai le armi nucleari. Per questo il negoziato è stato sin dall’inizio così profondamente avversato dal primo ministro israeliano. In nome di questo assunto – mai nucleare per Teheran – Netanyahu non ha esitato a sfidare apertamente Barack Obama. E’ andato a Washington, ha parlato davanti al Congresso, contro l’avviso del presidente, è arrivato apertamente a denunciare l’amministrazione americana lo scorso marzo, in occasione delle elezioni politiche, spiegando che Obama e i suoi mettono a rischio l’esistenza stessa dello stato di Israele.

La campagna di attacchi e sfide aperte non è servita. Yair Lapid, leader del centrista Yesh Atid, spiega ora che “Netanyahu è andato troppo in là e ha fatto sì che la Casa Bianca smettesse di ascoltare Israele. Nell’ultimo anno, non siamo stati presenti nell’arena, non abbiamo avuto nostri rappresentanti a Vienna, la nostra cooperazione a livello di intelligence ne è uscita danneggiata, e le porte della Casa Bianca si sono chiuse definitivamente di fronte al governo israeliano”. Netanyahu può quindi ora minacciare di agire presso il Congresso per ottenere il rigetto del piano firmato a Vienna. Ma, a parte l’esito incerto della mossa – Obama ha già detto di voler porre il veto – l’indignazione israeliana non appare in grado di ottenere molto. Forse l’appoggio di qualche falco repubblicano, o di qualche candidato conservatore alla Casa Bianca; non certo la rimessa in discussione dell’accordo.

C’è del resto una ragione precisa per cui Israele teme la possibilità che, nel futuro, Teheran abbia accesso al nucleare. L’arsenale nucleare israeliano, costruito a partire dagli anni Sessanta contro lo stesso avviso degli americani, ha permesso a Israele di mantenere una supremazia nell’area, costringendo le stesse amministrazioni USA a mantenere un appoggio costante alle richieste israeliane. In altre parole: la “Sampson Option” – la minaccia di infliggere la distruzione nucleare nei confronti dei nemici nell’area – è stata usata da Israele per aver accesso ad aiuti militari, finanziamenti, intelligence da parte americana. La possibilità che, nel futuro, anche l’Iran abbia un proprio arsenale nucleare cambia radicalmente la situazione. Rende gli Stati Uniti più liberi nei confronti di Gerusalemme. Rende più debole il potere di deterrenza di Israele nei confronti non soltanto dell’avversario iraniano, ma anche di tutti quei gruppi nell’area, anzitutto gli Hezbollah libanesi ma anche Hamas, riuniti a questo punto sotto l’ombrello del nucleare iraniano. Questo potrebbe, in prospettiva, costringere un futuro governo israeliano a sedersi ai tavoli negoziali con i palestinesi con molto meno potere di veto e influenza.

Quanto all’opposizione dell’Arabia Saudita all’accordo di Vienna, questa ha un’origine sia economica che politica. La fine delle sanzioni dell’Occidente nei confronti dell’Iran significa ovviamente via libera alle esportazioni di greggio iraniano (stimato intorno al milione e mezzo di barili al giorno). Il mercato mondiale verrà invaso da petrolio a buon mercato, che dovrebbe far scendere i prezzi e causare un inevitabile danno economico all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo, le cui economie sono già in difficoltà. Da un punto di vista politico, l’accordo di Vienna significa invece per Riyad una cosa soprattutto. Sinora la monarchia saudita ha combattuto l’Iran perché l’Iran costituiva un altro centro di potere nell’area e perché, nella visione saudita, l’influenza di Teheran si è dimostrata ovunque distruttiva – in Iraq, in Yemen, in Siria – portando all’emergere dell’ISIS e di movimenti radicali che hanno ovunque indebolito i poteri centrali. Dare a Teheran dignità negoziale, dargli la possibilità, anche solo tra 15 anni, di disporre del nucleare, significa sancire un dato di fatto che i sauditi considerano distruttivo della stabilità. Di qui, con ogni probabilità, un possibile riavvicinamento dell’Arabia Saudita a quelle forze – Turchia, Qatar, Fratelli Musulmani – che sinora Riyad ha considerato rivali, ma che potrebbero essere recuperate in funzione anti-iraniana.

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