Trent’anni fa, oggi, il mondo, il mondo della musica si stringeva a sé e dava vita al primo concerto globale della storia, il Live Aid. A ripensarci oggi fa uno strano effetto, per più di un motivo. Primo, grazie alla rete, che allora era qualcosa che stavano studiando cervelloni, è il caso di dirlo, dall’altra parte dell’Oceano, il mondo è diventato davvero piccolissimo. Non c’è bisogno di dar seguito a spiegazioni, credo, tutto corre veloce, sui social come nei siti. Fai in tempo a morire che già lo sanno tutti. Secondo, in queste ore si parla insistentemente, a ragione, di salvare la Grecia, di tenerla dentro l’euro e del rapporto stretto tra questo concetto e l’idea di Europa unita, e anche l’euro, trent’anni fa, non c’era. Però, in qualche modo, quello che si celebra oggi è stato un evento che ha anticipato il futuro, come solo l’intuizione di qualche creativo poteva pensare. Il 13 luglio 1985, infatti, a Londra, Philadelphia, Sidney e Mosca è andato in scena il Live Aid, il primo Festival globale, a scopo benefico. Dietro questo monstre, pensato per raccogliere fondi per la carestia in Etiopia, due cantanti, Bob Geldof dei Boomtown Rats, e Midge Ure degli Ultravox. Dopo di allora nulla è stato come prima. Pensate a un qualsiasi cataclisma, evento tragico e subito vi verrà in mente questo o quel concerto messo su per l’occasione. Magari con canzone incisa dai partecipanti di corredo.

Ecco, Live Aid è la matrice da cui tutto questo è partito. Ed essendo la matrice di una rivoluzione musicale, non poteva che avere per protagonisti nomi che, letti oggi, mettono i brividi. Dai Queen agli ancora quasi sconosciuti U2 (almeno in Italia), da Phil Collins, che per l’occasione grazie a un Concorde suonò a Londra e a Philadelphia, a Paul McCartney, passando per David Bowie, Elton John, Led Zeppelin, Dire Straits, Simple Minds, Carlos Santana, i rinati Black Sabbath, tornati insieme per l’occasione, così come Crosby, Stills, Nash e Young, Bob Dylan, Sting, Spandau Ballet, Tina Turner, Duran Duran, Mick Jagger, Madonna e David Gilmour dei Pink Floyd. Un concerto iniziato alle 12 di Londra, per poi proseguire nella notte europea a Philadelphia, qualcosa come sedici ore di concerto, durante i quali ci sono stati ovviamente problemi tecnici (come quello che non ha fatto sentire McCartney cantare Let it be, o che ha impedito a Bowie e Jagger di cantare in differita, l’uno a Londra e l’altro a Philadelphia), ma che è miracolosamente andato in porto senza troppe sbavature.

In quell’occasione sono state anche eseguite due canzoni, già messe in vendita e i cui proventi erano indirizzati anch’essi per raccogliere fondi per la medesima causa, Do they know it’s Christmas?, che raccoglieva la creme del pop britannico, a Londra, e We are the world, suo corrispettivo americano, a Philadelphia, l’una firmata da Geldof e Ure, e l’altra addirittura da Michael Jackson e Lionel Richie. Prove generali, questi brani, di quello che Live Aid poi sarebbe inimmaginabilmente stato. Il tutto portò a una raccolta fondi impensabile prima, oltre centocinquanta milioni di sterline solo grazie ai concerti. Si potrebbe anche dire che questo evento è stato il trampolino di lancio per il Bono del futuro, quello sempre in bilico tra rock e impegno sociale, non sempre disinteressatamente. Così come si potrebbe disquisire sulle tristi vicende umane di Bob Geldof, legato per sempre a questo evento (andatevi a vedere in rete il corto Bob, in cui lui stesso ci scherza, sarcasticamente, su). Si potrebbe concludere che la vita è stata arcigna con Geldof, incapace di trovare successo in musica di qui in avanti e colpito duramente negli affetti, per la tragica morte della compagna Paula Yates e di sua figlia Peaches. Ma quel che va celebrato oggi è un giorno importante per la musica, i trent’anni di Live Aid, la prima vera occasione in cui i cantanti pop hanno dimostrato di sapersi rimboccare le maniche e di unire intorno a loro, nella solidarietà, i fan per una giusta causa.

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