Ustaz (professore) Mohamad è orgoglioso quando mi mostra la sala dell’esposizione di dipinti e disegni fatti dai suoi alunni di un campo profughi nell’Akkar.

«Questo l’ha fatto un ragazzo di 20 anni che viveva nel campo», mi dice Ustaz Mohamad, indicandomi un bellissimo disegno che raffigura il volto di una donna, e continua «l’ha messo in vendita per 50.000 lire libanesi ma nessuno l’ha comprato, così l’ha lasciato qui». La stanza dove sono esposti i disegni è costruita con pannelli prefabbricati, donati da una Ong. Il tetto della stanza con l’esposizione di disegni non è isolata per trattenere il fresco e così si raggiungono facilmente i 40 gradi in estate.

I siriani che abitano in questo campo profughi, come quelli negli altri 1000 sparsi sul territorio nazionale, ogni mese fanno una colletta per pagare l’affitto del terreno al proprietario libanese, in quanto in Libano non esistono ufficialmente campi per rifugiati allestiti dallo Stato.

«Io sono un bambino, non un profugo» è la frase disegnata su di un muretto del piccolo piazzale del campo usato, mi spiega Ustaz Mohamad, come teatro per far recitare gli studenti. La terapia per curare lo shock post traumatico dei bambini passa anche dalla recitazione e i professori del campo ne sono consapevoli.

Invece, dietro la salette con l’esposizione dei disegni c’è un piccolissimo campo, largo un paio di metri quadrati, dove Ustaz Mohamad ha piantato dei pomodori e delle melanzane perché «così i ragazzi imparano a rispettare la natura e a collaborare insieme» sottolinea orgoglioso e prosegue «con quel poco che ho, tento di dare il meglio ai miei ragazzi».

Le circa 25-30 famiglie che compongono questo campo profughi nell’Akkar, a nord del Libano, provengono tutte dalla città di Quseyr, in Siria, conquistata nel maggio del 2013 dalle forze del regime siriano con l’aiuto di Hezbollah e altre milizie fondamentaliste sciite giunte dall’Iraq. Ustaz Mohamad lavorava come insegnante di arabo, storia e geografia in una scuola della città. Ci sediamo su delle sedie nel piazzale del piccolo campo insieme ad alcuni ragazzini, fra cui suo figlio Selim, e altri adulti.

Mentre resistiamo a una cappa di calore che circonda il campo, ognuno di loro mi dice la data esatta – il giorno, il mese e qualcuno perfino l’ora – di quando ha varcato il confine entrando in territorio libanese.

«Siamo in esilio, come i palestinesi, ma noi scappiamo da un dittatore arabo» mi dice Anwar tirando fuori dalla tasca un mazzo di chiavi. «Le vedi? Queste aprono la porta di casa mia. Se non dovessi mai tornare le lascio a mio figlio, magari tornerà lui».

Ci salutiamo calorosamente, con baci e strette di mano.  Torno a Beirut, alle comodità di casa mia, pensando a quegli uomini e donne incontrati che, nonostante la loro vita sia scandita dall’attesa del ritorno e dai problemi quotidiani del vivere in un campo profughi, preservano la loro dignità.

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