Srebrenica (Bosnia e Erzegovina). Le spoglie di altre 136 vittime si uniranno quest’anno alle quasi 7 mila già seppellite nel cimitero di Poto ari e negli altri nelle vicinanze di Srebrenica. Come una sorta di stillicidio che prosegue ininterrotto, anche in occasione del 20° anniversario del massacro, ci saranno ‘nuovi’ morti da seppellire. Vittime della furia serbo-bosniaca di inizio luglio 1995, durante la guerra dei Balcani. Vittime alle quali solo grazie all’analisi del Dna è stato possibile dare un nome, partendo dai resti recuperati anche pochi mesi fa, nel corso degli scavi di quelle infinite fosse comuni che continuano a essere scoperte quasi quotidianamente in tutta l’ex Jugoslavia e in particolare in Bosnia e Erzegovina.

Rinvenimenti frequenti, nonostante il tempo trascorso da quella terribile estate, che mantengono sempre aperto il flusso di morte iniziato in maniera violenta vent’anni fa, facendo si che la ferita per il più grande eccidio in Europa dal dopoguerra, non possa neanche iniziare a rimarginarsi. Certi che, il prossimo anno, ci saranno altri corpi ‘ricostruiti’ da seppellire.

Il lavoro degli scienziati dell’International Commission on Missing Persons, fondato nel 1996 per iniziativa dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, non si ferma mai. Neanche in occasione delle solenni celebrazioni in programma domani. Sono ben 6.827 i resti umani identificati tra le migliaia di frammenti arrivati finora presso le strutture dell’Icmp provenienti da centinaia di fosse comuni scoperte negli anni in Bosnia e nei Balcani. Qui a partire dal 1999 team di scienziati hanno iniziato a lavorare con l’obiettivo di ridare nome e dignità a tutte le vittime della guerra e in particolare del genocidio di Srebrenica. A 6.930 di queste è stato possibile dare un nome dopo aver incrociato i profili Dna con quelli presenti nel database costituito dalle donazioni da parte dei sopravvissuti all’inferno di Srebrenica, e che nell’eccidio hanno perso qualcuno che spesso continuano a cercare.

Che non sia ancora finita è chiaro. Dragana Vucetic, antropologa forense del Podrinje Identification Project a Tuzla, dove Icmp conserva le ossa provenienti da tutte le fosse comuni e dove gli scheletri vengono ricomposti, mostra un teschio. Lo tocca con delicatezza, lo osserva con cura. Dalle suture del cranio comprende che si tratta di un giovane. “Ce l’hanno portato il 2 giugno. E’ uno degli ultimi resti che ci è stato consegnato, tra poco inizieremo a lavorarci. E’ stato conservato bene, eppure lo hanno trovato nel bosco”. Moltissimi abitanti di Srebrenica in fuga dalle truppe serbo-bosniache, scelsero quella via per scappare. Su di loro però le truppe di Ratko Mladić scaraventarono raffiche di proiettili e colpi d’artiglieria. Il ragazzo potrebbe essere morto così.

“Non possiamo stabilire come è morto, spesso non riusciamo a farlo”. Ma qui le priorità sono altre “per noi l’importante è risalire alla sua identità – dice – a volte ci mettiamo pochi mesi, quando si tratta di un caso più semplice, altre volte, ci manca il Dna e non possiamo sapere chi è stato trovato”. Il lavoro degli antropologi forensi e degli anatomo patologi al Pip è affascinante dal punto di vista scientifico quanto angosciante da quello umano. “Non si fanno esami del Dna su ogni singolo frammento osseo – spiega Dragana – sarebbe impossibile. Quando troviamo delle ossa compatibili l’un l’altra, con la nostra esperienza ricomponiamo i corpi. Possiamo capire se una tibia, il bacino, la parte alta del corpo o il cranio appartengono a una stessa persona, attraverso analisi biologiche. Quando sappiamo di aver un buon numero di elementi, speriamo che incrociando i nostri dati con quelli degli archivi Dna del Icmp possa saltare fuori un nome”. Lo scheletro viene così consegnato alla famiglia, che può sepperlirlo.

Quella realizzata all’instituto persone scomparse in Bosnia, è una piccola rivoluzione sociale. Per la prima volta, il Dna anziché essere usato per costruire prove per condannare criminali, è usato in favore delle vittime: per ridare loro identità, nome e dignità. Prima dell’inizio delle attività specifiche infatti, sottolinea il capo della Divisione Coordinamento e Identificazione Emir H.Jasaravic “con il solo metodo tradizionale sono stati identificati appena 103 individui”. In 15 anni di lavoro con il Dna, le identificazioni si attestano sotto quota 7.000. La banca dati è composta attualmente da 22.268 campioni ematici: di questi, 7.743 sono di familiari di vittime del genocidio. “I nostri database sono composti da profile donati da consanguinei. Per noi il campione migliore è quello proveniente da due genitori o comunque due parenti prossimi. Per avere certezza assoluta di riconoscimento, preferiamo incrociare dati ante mortem, con quelli post mortem forniti dagli anatomo patologi con i profili Dna nel nostro database”.

Il successo del procedimento è evidente, ma non sempre c’è una risposta positiva. Capita anche che il Dna rilevato da un frammento osseo non abbia un ‘match’ nel database. Non tutti i parenti delle vittime hanno dato il proprio Dna, spesso sono scappati, trasferiti all’estero e non hanno più pensato di cercare i propri cari. La speranza è che anche questi un giorno possano contribuire alla ricostruzione dell’intera lista di vittime della guerra nei balcani e del genocidio di Srebrenica.

@luigi_spera

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