Sidney Deane, il Wesley Snipes di Chi non salta bianco è, era un provocatore di professione. Jack Shuttlesworth, interpretato da Denzel Washington nel capolavoro di Spike Lee He got game, si era guadagnato il rispetto con anni di canestri e galera. Per quanto possiate essere appassionati di basket e filmografia americana degli anni ’90, è bene che sappiate chi avete di fronte. Il trash talking, l’antica arte di insultare l’avversario per farlo innervosire, non sempre è produttivo. Tutt’altro: in certi campetti dire “tua mamma è un’astronauta” a chi ha la palla in mano oppure gridare “What?” in faccia al difensore appena mandato per terra potrebbe persino risultare pericoloso.

Per limitare i rischi da oggi a Milano una piccola guida digitale è in grado di consigliare dove andare a giocare a basket, con quali aspettative e che grado di arroganza presentarsi all’appuntamento. Si chiama Playground Milano, app disponibile per Android e Apple (Ios). L’ha creata l’omonima associazione che riunisce alcuni rappresentanti del folto popolo del basket outdoor, ora convertiti al mobile dopo aver già mappato i campetti cittadini attraverso sito, pagina Facebook e canale Youtube. “L’app funziona tramite la geolocalizzazione – spiega Lorenzo Veneziani – Una volta iscritto, la tua posizione è rilevata su una mappa, dove sono indicati i playground più vicini. Cliccando su ciascuno di essi appaiono un archivio di foto e i commenti degli utenti. Inoltre è possibile prenotarsi in una determinata fascia oraria, così tutti sapranno se c’è gente per andare a fare due tiri. Capita di trovare campetti deserti e altri affollatissimi, speriamo in questo modo di riuscire a smistare un po’ i giocatori”.

“Questa città ha una risorsa straordinaria, sconosciuta a molti – aggiunge Riccardo Sabbatini – Io mi sono trasferito tanti anni fa da Roma, dove la periferia non conosce verde e in tutto ci sono appena 45 strutture. Milano ha 120 campi, Manhattan può vantarne uno di meno. Lo stesso numero si trova a Parigi e Londra, che però contano su aree metropolitane infinitamente più estese”. Da aprile fino a ottobre sui playground disseminati in ogni quartiere le sfide di tre contro tre vanno avanti per ore. Sul cemento si avvicendano studenti del Politecnico e cinquantenni spigolosi, l’integrazione qui è già avvenuta. In via Tabacchi un canestro ospita le evoluzioni di centro e sudamericani, in largo Marinai d’Italia i filippini bombardano il ferro da ogni posizione con le loro canottiere fosforescenti: ogni lingua è buona per chiamare la palla, litigare o chiedere una pausa.

“In numerosi Paesi la pallacanestro è lo sport nazionale – dice Lorenzo – Abbiamo pensato al nostro prodotto anche in ottica Expo, alle tante persone che si trasferiscono a Milano per motivi di studio o lavoro. L’app sarà disponibile in diverse lingue, un ragazzo dell’associazione al momento è a Pechino e lavora alla traduzione in cinese a beneficio delle decine di ragazzi della comunità che ogni fine settimana popolano piazzale Accursio e gli altri playground”. La geografia dei diversi campetti cittadini cambia con estrema rapidità, la loro popolarità sale e scende a seconda del livello dei giocatori e del loro numero all’orario di punta. “Io gioco vicino a casa, al quartiere Adriano in fondo a via Padova. Sono arrivato qui da Cimiano e prima ancora da Precotto, che però si sono spenti con il passare degli anni” racconta ancora Lorenzo. Un tempo uno dei più ambiti dai ballers milanesi era quello di piazzale Lotto, oggi pressoché disabitato a favore di via Dezza, dove due anni fa fece la sua apparizione la superstar della Nba Kevin Durant.

É stato raso al suolo per fare spazio ai cantieri della M4 il campo di viale Argonne, mentre resiste quello del Parco Sempione. Qui la visita toccò a Kobe Bryant, mentre da giovane dava lezioni a tutti Ricky Pittis. Campioni che anche Riccardo, che non è più un ragazzino e oggi ama ricevere spalle a canestro al campo del parco di Trenno, ha incontrato sulla sua strada di giocatore da playground. “Quando arrivai a Milano andai a giocare fuori dal Palalido, dove si davano battaglia alcuni ex giocatori dell’Olimpia – ricorda – Una volta Dino Meneghin se la prese furiosamente con me perché non gli davo abbastanza fastidio in difesa. Gli spiegai che quando alzava il braccio il canestro scompariva dalla mia vista e mi perdonò”.

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