Piccoli, volubili e volatili. Il movimento quotidiano delle borse di Shanghai, Shenzhen e Hong Kong – prese congiuntamente – è animato da 90 milioni di di piccoli azionisti, due milioni in più degli iscritti al Partito comunista cinese. In gergo vengono chiamati investitori “retail”, quasi comprassero bonds come un paio di scarpe.

Questi investitori connotano da sempre il mercato azionario cinese, ma si sono riversati in borsa soprattutto sul finire del 2014, spinti dalla contrazione del mercato immobiliare e da tassi di interesse tenuti bassi politicamente. Tutte mosse volute dal governo per sgonfiare la bolla immobiliare (un tipico esempio di mossa politica è stato il limite posto alla concessione di mutui per l’acquisto delle seconde, terze, quarte case).

In questo periodo, abbiamo dunque assistito alla trasformazione della piccola borghesia cinese da ceto fondato sulla proprietà immobiliare (così fu creato, nel corso degli anni Novanta, dal Partito a caccia di consenso) a magma più diversificato, dove gioca un ruolo sempre maggiore la finanza: dal mattone, all’economia di carta.

Un mercato già abbastanza affollato si è così ulteriormente riempito di investitori, e le quotazioni sono salite clamorosamente fino al picco 12 giugno: + 150% anno su anno. A potenziare il boom, è sopraggiunto il diffuso ricorso al marginal lending, cioè, in breve, al prestito: non per comprare una casa o un’automobile, bensì per investire in borsa al di là delle proprie possibilità patrimoniali. È una pratica diffusa ovunque, ma in Cina di più, proprio per la forte presenza di investitori “non informati”: da maggio 2014 a maggio 2015, il totale del margin credit è dunque passato da 400 miliardi di RMB a 2.100 miliardi.

Il governo cinese, da parte sua, si fregava le mani, perché lo sviluppo del mercato azionario tiene buoni i risparmiatori, facendo crescere il valore dei loro risparmi anche in fase di rallentamento dell’economia e di correzione dei prezzi immobiliari. Il patto sociale che fonda la nuova Cina può essere rinnovato: arricchitevi e lasciateci governare.

Ma una crescita di questo tipo genera volatilità. Qui c’è da essere molto chiari. In questi giorni, i titoli di molti giornali occidentali hanno parlato di crollo, di bolle che scoppiano, di ecatombe finanziaria, di cavalieri dell’apocalisse. Economisti che con la Cina hanno invece a che fare quotidianamente prevedevano da mesi un aggiustamento al ribasso, senza però sapere come e quando sarebbe avvenuto.

Tra gli elementi che hanno frenato un mercato cresciuto troppo, c’è l’effetto di lungo periodo del più generale rallentamento di tutta l’economia cinese e anche qualche misura politica, come l’innalzamento dei tassi di interesse sui depositi bancari, che per le famiglie divengono così un’alternativa alle azioni.

Ma l’aggiustamento è diventato calo sostenuto, quasi crollo, perché i piccoli azionisti “non informati” sono più volubili e volatili, più propensi al panico. Non solo: il marginal lending, che tanto può dare in salita, altrettanto toglie in discesa. I broker che forniscono i crediti a questi azionisti, ottengono infatti in cambio, come garanzia, lo stesso pacchetto azionario del cliente. Quando il calo dei valori azionari mette il rimborso del prestito a rischio, possono incamerare e vendere le azioni. In questo caso, le vendite d’emergenza possono amplificare il crollo del mercato, così come gli acquisti a credito hanno amplificato il ​​boom. Ecco la volatilità del mercato cinese.

Ora, la Securities Regulatory Commission (la Consob cinese) ha stabilito che soci, amministratori o dirigenti d’azienda che detengono quote azionarie superiori al 5% non possono vendere i loro asset per i prossimi sei mesi. Ha inoltre bloccato momentaneamente tutte le nuove Ipo. Nel frattempo, la People’s Bank of China ha fornito ulteriore credito alla Cina Securities Finance Corporation, un’agenzia di Stato che ha il compito di prestare soldi agli intermediari (broker) attraverso un fondo da 260 miliardi di RMB. Ha quindi permesso alle aziende di emettere obbligazioni di finanziamento a breve termine sui mercati interbancari.

Tutte queste misura hanno permesso allo Shanghai Composite Index di chiudere oggi (giovedì) a un più 5,76% e al Component Index di Shenzhen, dominato dalle piccole-medie imprese, di salire per la prima volta in sette giorni di 4,25 punti percentuali, mentre l’Hang Seng di Hong Kong rispondeva con un più 3,73%. È presto per dire che la bufera sia passata, ma l’impressione è che il governo stia cercando di trasferire il peso del mercato dai piccoli a investitori più solidi, istituzionali. Cioè, fondamentalmente, a se stesso.

C’è un’ ultima annotazione. Nonostante tutto, il mercato azionario cinese sembrerebbe ancora fare gola agli investitori internazionali, come ghiotta occasione di diversificazione. È questo il caso dei fondi d’investimento Usa che, secondo l’agenzia EPFR Global di Boston starebbero continuando a pompare soldi nel motore cinese. L’agenzia sottolinea che l’aumento dei valori che si è verificato nell’anno precedente al 12 giugno è così grande che oltre l’80% degli Exchange-traded fund focalizzati sulla Cina chiuderà l’anno in attivo.

di Gabriele Battaglia

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