E’ uno dei grandi buchi neri nelle casse dello stato greco: l’abisso della corruzione, che da decenni contribuisce per qualche decina di miliardi di euro l’anno alla catastrofe dei conti pubblici ellenici. Appalti affidati direttamente alle imprese amiche, lavori tanto inutili quanto interminabili, costi elevati all’ennesima potenza: uno scenario familiare per noi italiani – una faccia, una razza, una tangente, si potrebbe motteggiare – un po’ meno per gli altri partner europei che all’esecutivo greco rinfacciano, tra le molte altre cose, anche un insufficiente impegno nella lotta alla corruzione. E sì che Tsipras l’aveva capito fin dall’inizio, cercando di metterci una toppa attraverso un Ministero anticorruzione ad hoc, ai cui vertici ha collocato l’integerrimo magistrato Nikoloudinis: è certo che le tenaci resistenze e gli ostacoli incontrati nella sua azione sono stati più rilevanti dell’irritante look casual di Varoufakis nei reiterati fallimenti delle trattative.

E qui le similitudini con l’Italia si fanno inquietanti. Il 2014 è stato un annus horribilis per chiunque abbia a cuore la “questione morale” in Italia, eppure non sarà ricordato soltanto come l’anno in cui le inchieste giudiziarie hanno certificato l’esistenza di un tessuto di corruzione capillare nella realizzazione della più grande opera pubblica (il MoSE nella laguna veneziana), nei lavori di allestimento del maggiore evento internazionale (Expo a Milano), nella gestione quotidiana degli appalti nella capitale, con il supporto organizzativo di un’organizzazione mafiosa autoctona (Mafia capitale). E neppure come l’anno in cui l’Italia, dopo un lungo declino, è scivolata all’ultimo posto nella graduatoria dei paesi dell’Unione Europea col livello più elevato di corruzione percepita secondo Transparency International, guarda caso a pari merito con la Grecia (oltre che Bulgaria e Romania). E’ stato anche il primo anno in cui è andato a regime l’ambizioso progetto di costruzione di un “presidio di legalità e trasparenza” nella prevenzione della corruzione, delineato nel 2012 dalla legge Severino. Grazie al corposo Rapporto al Parlamento 2014 dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, disponiamo per la prima volta di dati e indicatori aggiornati che ci permettono di tracciare un bilancio. Il 2 luglio il Presidente Raffaele Cantone lo ha presentato alla Camera, soffermandosi sulle luci e sui parziali successi, ma non nascondendo zone d’ombre, ritardi e ambiguità. Con le parole di Cantone: “La corruzione non può essere affrontata in modo unilaterale ma richiede interventi plurimi e contestuali; una repressione che funzioni, una prevenzione capace di inserire nel sistema gli anticorpi e un cambiamento culturale che comporti una maggiore consapevolezza dei cittadini”. Presenta caratteristiche di questo tipo il quadro istituzionale oggi esistente – per tacere di quello politico, sul quale il Rapporto naturalmente glissa? A un’attenta lettura la risposta è, in buona sostanza, uno scoraggiante “no, non ancora”.

E’ vero, vi sono aree in cui prevalgono valutazioni incoraggianti. Nelle politiche per la trasparenza dell’amministrazione, nella vigilanza sugli appalti, e soprattutto in alcune “buone pratiche” i passi avanti rispetto al ventennio berlusconiano sono evidenti: ad esempio, i controlli preventivi sul Centro accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, successivamente oggetto di indagine giudiziaria, hanno permesso di segnalare per tempo l’anomalia della procedura di affidamento dell’appalto; l’esercizio di controlli incrociati sugli appalti Expo sono stati riconosciuti dall’Ocse come metodologia efficace utilizzabile anche in altri contesti nazionali. Ma quanto più ci si avvicina al nucleo delle politiche anticorruzione, tanto più le valutazioni si fanno più ambigue, ed affiora la delusione per quella che ad oggi somiglia a un’occasione mancata. Si prendano i piani triennali per la prevenzione della corruzione (Ptpc), obbligatori per tutti gli enti pubblici: “La qualità di tali documenti in termini di metodo, sostenibilità ed efficacia appare sostanzialmente insufficiente”, recita il Rapporto. Con ogni evidenza, essi sono stati interpretati dalla quasi totalità delle amministrazioni come un fastidiosissimo obbligo di legge, e di conseguenza lo sforzo prodotto per adempiervi non ha prodotto che carta: la tigre di carta dell’anticorruzione, appunto, incapace di fare paura ad alcuno, figurarsi agli scafatissimi corrotti e corruttori. Basti pensare che dopo un anno dalla scadenza prevista ancora non v’è traccia di Ptpc nel 10% della amministrazioni. Solo il 61% di un campione di amministrazioni ha provveduto ad attivare le procedure per la raccolta di segnalazioni di illecito da parte dei dipendenti. Poco male, visto che comunque questo strumento è rimasto pressoché inutilizzato (con una media di 0,6 segnalazioni per amministrazione in un intero anno…). Come sorprendersi, visto che in molti casi destinatario della segnalazione sarebbe proprio il “superiore gerarchico”, che di quell’illecito potrebbe essere responsabile, connivente o protagonista? Le amministrazioni sul versante dell’anticorruzione rimangono sostanzialmente “cieche”, visto che oltre l’80% di esse non ha operato alcuna analisi (sociale, criminologica, economica, etc.) del contesto esterno in cui operano, e il 90% non ha provveduto a realizzare almeno una puntuale mappatura dei propri processi decisionali interni. Il vero pilastro del Ptpc, ossia il calcolo del rischio corruzione nei propri processi decisionali, è stato ignorato del tutto dal 35% delle amministrazioni, applicato in modo inefficace nel 45% dei casi.

Ha buon gioco allora l’Anac nel rivendicare l’urgenza di una seria revisione degli strumenti normativi, così come una rimodulazione e semplificazione dello stesso Pna (Piano nazionale anticorruzione), attualmente in corso d’opera. L’elenco è lungo: in materia di trasparenza occorrerebbe una semplificazione degli obblighi, una migliore regolamentazione dell’accesso civico, e soprattutto l’attribuzione di un potere sanzionatorio all’Autorità, le cui direttive possono oggi essere ignorate dai destinatari senza alcuna conseguenza. Andrebbero risolte le molte incertezze e contraddittorietà della normativa in materia di inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi. Il potere di vigilanza dell’Autorità si traduce oggi nella possibilità di esprimere un parere non vincolante, mentre l’apparato sanzionatorio è di difficilissima applicazione. Ma qui fuoriusciamo dal perimetro del Rapporto, per avventurarci nel periglioso mare della politica, in Italia da sempre piuttosto riluttante – per usare un eufemismo – a intervenire seriamente su temi tanto “sensibili”.

Ma la nostra Autorità anticorruzione ha bisogno anche di antenne utili a captare almeno alcune delle tante anomalie, distorsioni, inefficienze in cui si annida la corruzione, elaborando indicatori di aree geografiche, processi e settori di attività a rischio. Tra gli spunti più interessanti del Rapporto vi sono proprio rilevazioni empiriche – poche, in verità – come l’indagine condotta assieme all’Istat sugli appalti pubblici, dalla quale emerge tra l’altro che il 34% delle imprese è assuefatto o rassegnato al punto da ritenere che “la corruzione è parte del gioco”, o che nei servizi di informazione e comunicazione l’80% delle imprese considera il capitolato della gara predisposto ad hoc per favorire un concorrente. Ancora, un esame campionario dei prezzi unitari di 115 farmaci con lo stesso principio attivo (ossia prodotti identici) pagati da Asl e aziende ospedaliere ha messo in evidenza difformità in alcuni casi pari al 500%. Per non precipitare nella “sindrome greca” occorrerebbe dunque moltiplicare e affinare simili strumenti di analisi per la definizione di indicatori e fattori di rischio corruzione. Ma questo richiederebbe un investimento ulteriore nella direzione di una diversa cultura amministrativa, orientata non tanto ai criteri di adempimento formale, quanto a una visione di più ampio respiro, capace di guardare ai risultati conseguiti – anche nella prevenzione della corruzione – e ai prodotti finali di un’azione pubblica rigorosamente orientata al perseguimento del bene comune.

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