Se qualcuno aveva dei dubbi, la giornata di martedì 30 giugno li ha sciolti come neve al sole: la partita tra Grecia e Troika va avanti e si gioca esclusivamente sul campo della politica. Un campo minato, soprattutto per l’Europa dove – al di là della facciata – le divisioni sono profonde ed emergono vistosamente anche in quest’ultimo giro di mano a poker. Mentre la Borsa lussemburghese sospendeva dalle contrattazioni i titoli obbligazionari delle banche greche perché di fatto da oggi insolventi, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, confermava di aver fatto avere ad Atene una nuova proposta di accordo – migliorativa rispetto alle precedenti – con l’obiettivo di chiudere l’intesa entro sera a condizione che il governo greco si impegni a favore del sì nel referendum che si svolgerà domenica 5 luglio. Una mossa tattica volta a dimostrare che Bruxelles sta facendo e ha fatto fino all’ultimo davvero tutto il possibile per venire incontro alla Grecia. Forse il “no” di Alexis Tsipras era dato per scontato, fatto sta che quando si è diffusa la notizia che il premier greco stava attentamente valutando la proposta, nelle cancellerie europee ha iniziato a crescere il nervosismo. Al punto che a metà pomeriggio lo spagnolo Mariano Rajoy ha sentito il bisogno di parlare alla radio non per commentare le chances di un possibile accordo dell’ultimo minuto, ma per dire che se al referendum greco passerà il “no”, Atene dovrà uscire dall’euro. Un posizione che manco il ministro delle Finanze tedesco, il “falco” Schaeuble, si sogna di sostenere (“la Grecia resterà in ogni caso nell’euro”), ma si sa: Rajoy è più preoccupato per la sua poltrona minacciata dall’avanzata di Podemos in Spagna che dalla crisi dell’Europa.

L’Italia, più intelligentemente, ha scelto la strada del silenzio anche perché ha poco da dire non facendo di fatto più parte del “club” di Paesi che partecipano agli incontri che contano. A parlare è stata invece la cancelliera Angela Merkel e lo ha fatto per tutti quando si è resa conto che la mossa di Junker aveva dato ancora una volta il destro a Tsipras per rilanciare: la Germania ha di fatto posto il veto a qualunque accordo e a qualunque proposta di salvataggio prima dello svolgimento del referendum. “E’ troppo tardi”, ha semplicemente detto la Merkel, respingendo la controproposta di Atene che in una lettera indirizzata all’Eurogruppo chiedeva l’attivazione del programma del Fondo Salvastati per due anni e la rinegoziazione del debito. L’effetto? Sarà quello di polarizzare sempre più l’elettorato in vista del voto di domenica. Certo, il “nein” della Merkel non aiuterà molto la campagna pro “sì”, ma siamo sicuri che la Germania e i falchi dell’Unione puntino sul successo del sì? La sensazione è che sulla crisi greca si stiano giocando tante partite diverse. Spicca ad esempio il silenzio della Gran Bretagna che se da un lato non aderisce all’euro, dall’altro segue con grande attenzione e cinismo gli sviluppi della situazione: non dimentichiamoci il referendum sulla permanenza nell’Unione europea che Londra indirà entro il 2017, o forse anche prima se risulterà economicamente e politicamente conveniente. In altri Paesi invece si guarda soprattutto al proprio ombelico, ossia agli effetti che il successo o l’insuccesso del negoziato con la Grecia possono produrre sugli equilibri politici interni. Un esempio ne è la Spagna, ma anche l’Italia non scherza.

Certo è che se l’unico cemento in grado di tenere insieme Eurolandia è rappresentato dal pugno di ferro e dall’austerity, è difficile immaginare che si possa andare avanti a lungo e di questo sono preoccupati anche gli Stati Uniti che da mesi sollecitano, inascoltati, il raggiungimento di un accordo con Atene. E’ chiaro che che da un lato si temono ripercussioni economiche in termini di una minor crescita: Obama ha detto chiaramente che l’America non teme ripercussioni finanziarie dirette, ma questa crisi può avere un impatto importante sull’economia europea e se l’Europa non cresce questo è un problema per l’America. Dall’altro lato c’è una questione politico-strategica: un’Europa non coesa è un problema anche maggiore. Basti pensare ai differenti rapporti con la Russia, ai tentennamenti sull’Ucraina, agli interessi variegati con il mondo arabo, alla penetrazione cinese. I 350 miliardi di debito della Grecia, visti da Washington, sono l’ultimo dei problemi e la spinta affinché l’Europa trovi un compromesso si fa sempre più pressante: anche oggi il segretario al Tesoro Jack Lew ha invitato i leader europei a trovare un “compromesso pragmatico”. Intanto le Borse, dopo aver oscillato per tutto il giorno, hanno chiuso in negativo sul veto della Merkel. E, a giudicare dall’esito del primo round dell’Eurogruppo dopo la rottura dei negoziati, la cancelliera sembra ancora una volta aver parlato a nome di tutti. Fino a quando?

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