È “pacifico” che l’impianto dell’Ilva nel quale ha perso la vita l’operaio Alessandro Morricella investito da un getto di ghisa liquida, fosse “sprovvisto dei più elementari dispositivi destinati e idonei alla protezione dell’incolumità dei lavoratori”. Lo ha scritto il gip di Taranto, Martino Rosati, nel decreto con il quale ha convalidato il sequestro senza facoltà d’uso dall’Altoforno 2 dello stabilimento siderurgico richiesto dalla procura tarantina. Nelle 12 pagine del documento il magistrato ha spiegato oltre agli accertamenti svolti dagli investigatori è stata proprio l’azienda con il suo atteggiamento a confermare questa mancanza.

L’Ilva, infatti, subito dopo l’incidente che è costato la vita all’operaio 35enne, si è “affrettata – scrive il gip Rosati – a piazzare delle artigianali barriere metalliche di protezione in prossimità dei punti più pericolosi dell’impianto” e contemporaneamente a “commissionare” a una ditta specializzata la predisposizione di dispositivi automatizzati per eseguire la misurazione della temperatura della ghisa, la stessa che ha ucciso Morricella. Per il giudice, quindi, è stata proprio l’Ilva “a confessare l’enorme e inaccettabile lontananza dei dispositivi di sicurezza presenti sull’impianto”.

La procura ha aperto un fascicolo per cooperazione in omicidio colposo e omissione delle cautele sui luoghi di lavoro. Nel registro degli indagati, oltre al direttore dello stabilimento Ruggiero Cola, sono finiti il capo Area Salvatore Rizzo, il tecnico campo di colata Domenico Catucci, il tecnico di cabina Vincenzo Catucci, il capo turno Saverio Campidoglio, il direttore dell’area Ghisa Vito Vitale, e poi ancora il capo reparto Afo 2 Giovanni Zingarelli, il responsabile aziendale per la sicurezza (sil) dello stabilimento Sergio Palmisano, Pietro Bonfrate coordinatore sil dell’area ghisa e infine Antonio Russo, tecnico sil dell’area altoforni.

La decisione del gip Rosati, notificata qualche ora fa dai carabinieri di Taranto, di negare la facoltà d’uso all’Ilva potrebbe avere conseguenze più drastiche per la fabbrica. La conferma dei sigilli agli impianti dell’Altoforno 2, infatti, rischia di causare il blocco totale dello stabilimento tarantino. Il fermo dell’altoforno 2, infatti, si aggiunge a quello dell’Afo1 – fermo da dicembre 2012- e dell’Afo5, inattivo da tre mesi: entrambi gli impianti sono stati spenti per consentire all’azienda di eseguire gli adeguamenti alle prescrizione imposte dall’Autorizzazione integrata ambientale.

A produrre acciaio, quindi, resta solo l’Afo4. Un solo altoforno, però, hanno fatto sapere i tecnici, genera un profondo rischio di sicurezza per l’intero stabilimento. Il riciclo dei gas degli altoforni, infatti, è utilizzato da Ilva per alimentare altri impianti: il funzionamento di un solo altoforno, pertanto, non garantirebbe la produzione minima di energia necessaria per utilizzare altri impianti collegati alla produzione dell’acciaio. L’azienda, attraverso i suoi legali, aveva già annunciato il ricorso al tribunale del riesame, ma in attesa della decisione del riesame, l’azienda non potrà fare altro che avviare lo spegnimento degli impianti. Il governo al momento tace. E tra gli operai, a distanza di tre anni da quel luglio 2012, torna a serpeggiare la paura.

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