“Non abbiamo dovuto fare un granché per accendere il rogo: è facile mandare a fuoco un mondo che si consuma da così tanto tempo nel proprio caos. A ogni istante, quello che avete costruito perde il suo equilibrio, perché in questo mondo tutto si equivale: ogni cosa è uguale al suo contrario, in altre parole niente a più valore. È la forza terribile del vostro mondo, ma è anche la sua debolezza. Non crediate che prendendo la parola cercassimo di convincervi; o di sedurre coloro che fra di voi avessero avuto un qualsiasi desiderio sovversivo: avete abbandonato ogni speranza, ed è per questo che vivete all’inferno. Il vostro mondo si crede ‘globale’ perché ha aperto le frontiere e facilitato la libera circolazione delle persone. In realtà, non fa altro che sacrificare ciò che non è compatibile con i propri interessi”.

Le volpi pallideDifficilmente i tipi di Edizioni Clichy fanno uscire testi insipidi, e anche in questo caso, pubblicando Le volpi pallide, dello scrittore francese Yannick Haenel (traduzione di Barbara Pugelli), hanno lanciato sul mercato italiano un romanzo sorprendente, capace di suscitare istinti rabbiosi nel lettore, scritto con una prosa asciutta e al contempo visionaria, e costruito su un plot narrativo originale, efficace e totalmente al passo con i tempi di incertezza e abbrutimento che sta vivendo il cosiddetto mondo globalizzato.

La storia si sviluppa a Parigi, nel XX arrondissement, tra il cimitero del Père-Lachiase, le colline di Charonne, Belleville e Ménilmontant e una indefinita terra di nessuno abitata da immigrati abusivi, disperati, artisti, esuli. Tutto inizia con un uomo che ha deciso di vivere dentro la propria automobile, un flâneur cosciente della propria disperazione e della propria marginalità che durante le sue peregrinazioni vede comparire curiose scritte sui muri che annunciano una rivoluzione totale, uno stravolgimento del sistema esistente. Gli slogan e i disegni rimandano alla Volpe pallida, una divinità anarchica delle popolazioni Dogon del Mali (sulla stessa figura aveva scritto, anni fa, il maliano Moussa Konaté, in un noir non troppo riuscito, apparso in Italia con il titolo L’impronta della volpe).

“Che siate ricchi o sfruttati, che facciate parte di coloro che prosperano o di coloro che sono depredati, accettando di essere al contempo impiegati e clienti del mercato, avete lasciato che vi inghiottissero (…) in questo mondo che difendete costi quel che costi, gli esseri umani sono a ogni istante sacrificabili. Questo sacrificio vi ingloba”. Pian piano l’incendio libertario si propaga su tutta Parigi, la narrazione, da soggettiva, diventa corale, l’uomo che vive in macchina lascia il posto al popolo. Il canto dell’anarchismo primordiale si alza sul cielo della capitale francese e, in un incalzante susseguirsi di azioni e rivendicazioni descritte con una semplice ed efficace poeticità, si giunge all’enigmatico finale che lascia aperte mille strade al lettore. Rimandando alle tante rivolte contemporanee, il romanzo parla soprattutto dei sans-papiers e ci avverte del pericolo che tutti noi, con la nostra indifferenza, stiamo ingigantendo il problema sempre più:

“Come la maggior parte degli emigranti, hanno conosciuto gli scafisti che li depredano, la traversata notturna del Mediterraneo su una bagnarola che i doganieri corrotti lasciano andare alla deriva a Marsiglia o a Lampedusa, dove altri doganieri, a volte gli stessi, li sbattono direttamente dentro; sono stati parcheggiati in un centro di permanenza dove la mafia viene a reclutare gli schiavi; hanno conosciuto l’errare sulle spiagge francesi o italiane percorse infinite volte per vendere merce contraffatta di Vuitton e Prada in cambio di un materasso in una catapecchia in rovina (…) la loro storia è quella di centinaia di migliaia di immigrati che sfidano le frontiere perché la miseria che sono pronti ad affrontare in Europa gli sembra meglio di quella che nel loro paese li condanna”.

Colonia CeciliaDi altri emigranti e di un altro sogno anarchico si parla, invece, nel testo dello scrittore e giornalista brasiliano Afonso Schmidt (pubblicato in Italia da Edizioni dell’Asino, con una prefazione di Alice Rohrwacher), Colonia Cecilia, la storia di un gruppo di anarchici italiani che sul finire dell’Ottocento decise di fondare una comune nelle vicinanze di Palineira e Santa Barbara, località dello Stato del Paraná. L’esperienza di questi sognatori è destinata, ovviamente, al fallimento, ma la rievocazione della sua vita pulsante è fatta da Schmidt con una prosa fresca ed efficace che richiama tanto il new journalism sudamericano. Colonia Cecilia fu un’esperienza totale che includeva l’amore libero, dove legge, religione, famiglia non erano contemplate, in cui i richiami dei nichilisti russi, le teorie di Bakunin e Kropotkin, gli avvenimenti che avevano incendiato l’Europa non vennero presi in considerazione. Si trattò di un esperimento originale, a modo suo unico, concluso per colpa forse della disillusione dei suoi fondatori, ma come scrive Scmidt: “la teoria insegna quel che si può fare, ma la pratica (dura, annientatrice come fu quella), serve per insegnare, principalmente, quello che non si deve o non si può fare. La scienza sociologica è uscita, quindi, più ricca, dalle misere capanne della Colonia Cecilia”.

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