Persone che partecipano a un funerale congiunto per tre ragazzi israeliani in un cimitero di Modi’in vicino a Gerusalemme, il 1 ° luglio 2014.

English version

Alla fine, dopo avere cercato un nuovo lavoro per trent’anni, inutilmente, dopo avere venduto per strada impermeabili, cartoline, crocchette, dopo essersi venduto la casa, Paul Grüninger è lì solo in un caffè, davanti a delle noccioline. L’unica cena che può permettersi.

Era un capitano della polizia di frontiera, un tempo. Ma erano gli anni Quaranta. Ed era svizzero. E la Svizzera aveva chiuso la frontiera agli ebrei in fuga dall’Austria. Dal nazismo. Paul Grüninger fu licenziato perché falsificava i loro documenti. Perché li lasciava entrare. Ma non in cambio di denaro, come fu accusato. Semplicemente perché, a differenza di molti altri funzionari, molti suoi colleghi, incontrava i profughi. Per lui non erano numeri, timbri, pratiche d’ufficio. Erano donne, uomini reali. E non erano migranti: erano rifugiati. Il superiore ordina, delega, e non vede, il subordinato obbedisce e non riflette: ognuno, a modo suo, sfugge la propria responsabilità. Perché il male non è tanto il prodotto di certi tratti della personalità, come sosteneva Adorno: forse, come sosteneva invece Bauman, è piuttosto il prodotto di certi modelli di interazione sociale. Il prodotto del disconoscimento. Della distanza. Dell’incapacità di identificarsi negli altri.

E quando guardiamo il mondo, capire che ogni finestra è anche un po’ uno specchio.

Oggi Paul Grüninger è a Gerusalemme. Nel Viale dei Giusti.

E poi c’è Aleksander Jevtic. Un serbo che durante l’assedio di Vukovar, durante una retata, chiama con nome serbo i prigionieri croati, assicura i suoi commilitoni che no, non sono croati, ma serbi: è sicuro, sono suoi vicini di casa – salvandoli, così, dall’esecuzione. E Aleksander Jevtic, a parlarci, è un altro che tutto sembra, tranne che un eroe. Un uomo speciale. Anzi. A Eyal Press, lo scrittore che racconta queste storie nel suo Anime Belle, sembra un po’ un bullo di paese. Arriva su un’auto sportiva, sgommando, e vive di rendita, nella vita, ha delle case di proprietà, vive dei fitti, e passa le sue giornate sul divano a trangugiare birra e guardare il tennis in televisione: è completamente diverso dal dissidente, l’attivista, l’intellettuale che Eyal Press si era immaginato. Ma perché queste non sono storie di ribelli: sono storie di uomini comuni, che in tempi difficili, però, hanno avuto il coraggio di dire No. Il coraggio di disobbedire. Aleksander Jevtic non si era mai interessato di politica. Durante la guerra, lungi dal partecipare, dal parteggiare, lungi dal sentirsi coinvolto, si era nascosto in uno scantinato: e a guerra finita, era tornato alla sua vita come se niente fosse accaduto. Dei croati che aveva salvato, rischiando di essere scoperto, e fucilato all’istante, diceva semplicemente: Ho agito di istinto. Perché pensiamo che l’istinto sia la violenza, l’aggressività: l’egoismo: che sia necessario frenare l’istinto e usare la ragione. E invece la ragione, il freddo calcolo è quello che ci fa tirare indietro. Indietro rispetto al nostro essere tutti uguali, tutti esseri umani: al tendere la mano, aiutare: aprire la porta, aggiungere un posto a tavola – la ragione è quella che ci induce a pensare che poi pagheremmo un prezzo. Che è meglio tirare dritto.

Perché è più complicato di come sembra.

Perché se ne aiuti uno, no?, poi devi aiutarli tutti.

E come si fa?

Quelle di Eyal Press non sono storie di ribelli. Al contrario. Sono storie di uomini che dicono No non perché contestano la società, ma all’opposto, perché credono nei valori su cui si fonda. Come Avner Wishnitzer, che diserta durante la Seconda Intifada. E che non è un pacifista, per niente, è un militare di un’unità di élite dell’esercito. Ma pensa che devastare la vita dei palestinesi non sia il modo migliore per garantire la sicurezza di Israele. E come lo stesso Eyal Press. Che è nato a Gerusalemme, ma non vive più in Israele, vive negli Stati Uniti. E per il suo libro, ha scelto un titolo che è più di un titolo: Anime Belle, in ebraico, è Yafeh Nefesh – ed è un insulto. In ebraico, non è solo l’ingenuo che non ha capito come va il mondo. Che si illude, nel suo piccolo, di cambiare le cose. In ebraico, è chi mette in pericolo la società. E’ il traditore. Yafeh Nefesh. E’ molto più di un titolo, è un coming out – non è una descrizione, è una confessione.

E’ una finestra e uno specchio.

Perché i tempi difficili in realtà non sono solo i tempi di guerra. La disobbedienza non è solo quella delle circostanze eccezionali. Leyla Wydler è una broker statunitense che intuisce che qualcosa non funziona, sono gli anni Novanta, gli anni della speculazione: e si rifiuta di vendere titoli tossici ai suoi clienti. E viene licenziata. Mentre chi ha venduto i titoli, e ridotto sul lastrico migliaia e migliaia di famiglie, viene premiato con bonus che arrivano al milione di dollari. Leyla Wydler ha scelto la banalità del bene: la banalità di lavorare con professionalità, di controllare quello che proponeva ai suoi clienti, niente di più: niente di speciale: è stata ripagata con ostilità e solitudine. Perché la sfida, in queste storie, non è tanto una sfida all’autorità: è una sfida alle convenzioni. Al conformismo. Non a chi ci comanda, ma a chi ci circonda. “Il potere della situazione”, nella definizione di Eyal Press. L’ambiente. Che più che costringerti, ti induce a.

Perché sono uomini comuni, questi, ma anche, spesso, vite comuni.

Vite come la nostra.

Perché poi dell’Olocausto ricordiamo i nazisti. Ricordiamo le leggi razziali, le stelle gialle, i campi di concentramento. Non ricordiamo i paesi vicini: quelli che chiudevano la frontiera ai profughi. E invece questa è la storia di chi come se niente fosse, mentre gli altri negavano un timbro, negavano un visto, ha detto No. Mentre gli altri dicevano che erano troppi. Che avrebbero rubato il lavoro. Le case. Avrebbero contaminato l’identità. Mentre gli altri dicevano che bisognava piuttosto aiutarli nel loro paese. E che comunque bisognava applicare le regole, o sarebbe stata l’anarchia. Se ognuno avesse fatto di testa sua. E seguito l’istinto invece che la ragione.

Mentre gli altri dicevano: E poi chissà se sono profughi. Magari sono terroristi.

E’ una storia che non è finita, questa.

Una storia che ancora non ha trovato le sue anime belle.

Anime Belle, di Eyal Press, è stato pubblicato in Italia da Einaud

i

Articolo Precedente

Wikileaks: “Nsa spiava presidenti francesi. Da Chirac a Sarkozy e Hollande”. Da Usa smentita a metà: “Hollande no”

next
Articolo Successivo

Wikileaks, l’ipocrita balletto sulle intercettazioni tra Europa e Usa

next