Anche i vigili del fuoco possono essere considerati lavoratori che, in un determinato periodo storico, hanno operato col rischio d’essere intossicati dall’amianto. Lo stabilisce una sentenza del Tar di Milano che ha accolto il ricorso contro il ministero dell’Interno di un pompiere al quale nel 2006 fu diagnosticato un “mesotelioma pleurico destro” che due anni dopo ne provocò la morte.

Saranno i suoi eredi a raccogliere i benefici del pronunciamento favorevole del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, che ha riconosciuto la “dipendenza da causa di servizio della grave malattia”, come è scritto, condannando l’amministrazione pubblica al pagamento di un equo indennizzo. L’ammontare della cifra rimane riservato, ma la decisione presa dal Tar è storica.
Prima di essa, lo scorso aprile, ci fu la Corte dei conti a riconoscere la legittimità della richiesta d’indennizzo di un gruppo di vigili del fuoco di Genova, sostenuti dall’Aea (l’Associazione esposti all’amianto), che avevano lavorato nei cantieri e sulle navi attraccate presso il porto della città ligure, operando quindi su strutture tradizionalmente “protette” dagli incendi dall’amianto.

Il vigile del fuoco morto nel 2006 per mesotelioma aveva operato invece sulle autopompe di Lombardia e di Piacenza, dal 1967, occupandosi di incidenti stradali o incendi, quindi in un certo senso di “normale amministrazione”, venendo però pericolosamente a contatto con “tute ignifughe composte di amianto” nonché intervenendo “in occasione di incendi – è scritto sempre nella sentenza Tar – insistenti su materiali contenenti amianto, come quelli utilizzati per la coibentazione di tetti, per la pavimentazione, per la soffittatura, per la realizzazione di pannelli di isolamento e di rivestimento o ancora per la realizzazione di parti di veicoli, quali freni e frizioni”.

Il periodo di lavoro sotto accusa è il ventennio che va dall’inizio della carriera del vigile del fuoco sin verso il 1986. Il ministero dell’Interno ha provato a “resistere” alle richieste del suo ex dipendente, sostenendo che “la formazione di fibrosi e di tumori è ammissibile ‘nel personale esposto alle inalazioni di polveri di amianto (operai addetti all’estrazione e lavorazione del materiale) altrettanto non può dirsi nei confronti di chi ha utilizzato tute ignifughe o ha soggiornato in ambienti in cui le stesse tute erano presenti‘ ”.

Insomma, l’amianto esisteva ma “in condizioni statiche” per cui nessun indennizzo. Il Tar ha risposto che “la tesi dell’amministrazione si fonda su argomentazioni apodittiche e prive di qualsivoglia dignità scientifica”; quindi ha spiegato: “Si parte dal postulato, privo di qualunque dimostrazione, dell’impossibilità che le tute indossate, le coperte e gli altri materiali utilizzati potessero produrre particelle di amianto, per poi omettere qualunque considerazione sull’incidenza causale dell’inalazione avvenuta durante interventi operativi causati da incendi di materiali contenenti amianto, sino ad affermare che, se anche si riconosce l’avvenuta inalazione, essa è da ricondursi a situazioni occasionali e comunque a quantitativi irrisori”. Per cui: “I dati sinora evidenziati rendono evidente la sussistenza del nesso eziologico, da individuare secondo il noto criterio del ‘più probabile che non’ utilizzato dalla giurisprudenza dominante, tra l’esposizione alle fibre di amianto cui è stato sottoposto il vigile del fuoco e l’insorgere del mesotelioma pleurico che lo ha condotto al decesso”.

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