Una ricerca effettuata dall’Università degli studi di Milano in collaborazione con l’University College di Londra ha rivelato che il flusso di migranti si sposterebbe verso il territorio britannico per motivi di impiego e rispetto ai nativi vanta tassi di partecipazione al lavoro più alti, contribuendo tra il 2000 ed il 2011 al bilancio pubblico versando tasse pari a 20 miliardi di sterline. Il flusso migratorio garantirebbe alle casse dello Stato britannico poco più di 25 miliardi di sterline, di questi quindici apparterrebbero ai migranti comunitari.

Il Premier Cameron sembra rigido sulle sue posizioni: una ragionevole rinegoziazione con Bruxelles, altrimenti il popolo sarà già pronto a votare per un referendum indetto nel 2017, in cui verrà deciso il destino della Gran Bretagna: dentro o fuori l’Ue. Il tutto escogitato magistralmente come mossa politica per far tirare un freno a mamma-Europa forse, ma anche per frenare le ondate migratorie provenienti da ogni parte d’Europa, particolarmente dall’Est e da quei paesi definiti dallo stesso simpaticamente con l’acronimo Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

Proprio quelli che, laddove i risultati della ricerca fossero veritieri, contribuiscono al welfare statale con una percentuale pressappoco pari al 60%.

Su Channel 5 della televisione britannica va in onda un programma televisivo dal titolo Benefits in Britain: Life on the dole, in cui sono documentate storie di famiglie inglesi ove l’unica religione professata sempre essere quella della sovvenzione governativa. Intere famigliole che, volendo tralasciare volutamente la descrizione dello stato di indecenza e sporcizia in cui versano e cui sono probabilmente avvezzi, vanno avanti senza mai aver lavorato nella loro vita, “perché tanto c’è lo Stato che paga per la nostra sopravvivenza”, probabilmente per generazioni, pur mostrando in bella vista iPhone e iPad, facendoli rientrare presumibilmente in beni di primaria necessità.

Di storie del genere ne ho ascoltate tante, ove il benefit sembra essere diventato oramai un culto irrinunciabile. E qualcuno, al microfono del reporter, ha anche detto: “Noi siamo senza lavoro perché la Gran Bretagna offre lavoro agli stranieri. Lo Stato è a noi che deve pensare in primis, no a loro.”

Per un attimo ho ragionato su quale fosse il primo pensiero della stragrande maggioranza di italiani, ma di migranti in genere, una volta messi piede in terra d’Albione: trovare un lavoro, uno qualsiasi. Perché si sa, all’inizio anche senza masticare la lingua a furia di cercare un lavoretto si trova. Immagino che nessuno a quel tizio sdentato e dalla pronuncia biascicata gliel’abbia suggerito.

Perché la verità è che forse in un Paese in cui puoi sopravvivere anche senza lavorare, perché in questo caso c’è lo Stato che si offre di aiutarti, tu di inventarti un lavoro, in un Paese dove le opportunità si proliferano a macchia d’olio anche per chi non conosce la tua lingua, figuriamoci per te nativo, non ci pensi nemmeno. Chi te lo fa fare.

Non avendo intenzione alcuna di generalizzare, siamo però sicuri che sono i migranti a rubare il lavoro agli inglesi, o questi che, in un Paese in cui il modus operandi non è mai cambiato sino ad ora lasciando che parte della popolazione in maggioranza appartenente alle classi sociali più basse si adagiasse, in fondo non sono disposti a rinunciare al loro status di lazy?

Che Cameron decida pure di privilegiare gli inglesi, certo. Ma anche quando si tratta della riduzione di sovvenzioni statali. Proprio quelle che, in simili condizioni di parassitismo, cozzerebbero con il principio del lavorare dignitosamente, quello che in fondo sembrerebbe muovere il flusso migratorio comunitario.

In fondo sono loro che ci ospitano e noi prendiamo quello che alcuni di loro forse nemmeno cerca.

di Antonia Di Lorenzo
(Scrive di Londra anche qui http://ilnuovo.me/category/qui-londra/, sul suo blog personale http://antoniadilorenzo.blogspot.co.uk ed in inglese sulla piattaforma Readwave http://www.readwave.com/antonia.di.lorenzo/stories/)

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