Nella relazione tecnica del Comune vengono chiamati “depositi di origine antropica”. Un eufemismo che non addolcisce la sostanza: a Massa, solo nella zona di pianura, ci sono 70 discariche abusive. Sono 70, in un’area di circa 40 chilometri quadrati: l’intero comune è 90. I depositi sono tutti a ridosso di corsi d’acqua, in aree private. Alcune piccolissime, altre decisamente più grandi, alte anche cinque metri, che coprono una superficie di 8mila metri quadrati. Cosa c’è dentro? Non si sa. Il contenuto è sconosciuto dal momento che sono nascoste sotto uno strato di verde. Forse “solo” terra e calcinacci. O forse anche amianto e altri rifiuti speciali.

Lo sapremo solo quando i tecnici comunali concluderanno le verifiche, che però vanno avanti a rilento: la relazione, redatta per l’aggiornamento del regolamento urbanistico dal geologo Andrea Piccinini, è del 2013 ma i controlli sono partiti solo a inizio 2015. E da allora, di chiarimenti, ne sono arrivati pochi. Sono stati fatti sopralluoghi solo in cinque discariche. Di carotaggi però nemmeno l’ombra. “Potrebbero contenere solo terre – fa sapere il vicesindaco e assessore all’ambiente, Uilian Berti – ma spetta al privato fare la caratterizzazione, non al Comune”.

Lo studio del geologo si è basato su due linee operative: sui database delle discariche storiche già censite in precedenti archivi (Regione, Arpat, Comune e Provincia) e in base alle informazioni ottenute tramite tecnologia Lidar: un laser che rileva le curve non naturali sulla superficie, efficace solo nelle aree di pianura. Nella relazione quindi non sono inserite le fasce collinare e montana e non è escluso che altri “depositi di origine antropica” siano nascosti nei boschi delle Alpi Apuane.

Quanto basta per provocare il putiferio nelle aule della politica, con i Cinque Stelle che chiedono la testa dei responsabili politici (“qui ci sono delle chiare responsabilità della vecchia classe politica”, sostiene il capogruppo consiliare, Riccardo Ricciardi) e gli arancioni (il centro-sinistra che ha guidato la giunta massese per tre mandati a partire dal 1998 fino al 2013) che cerca di smorzare i toni invitando a “non esagerare con i titoli (di giornale, ndr) perché questa non è la Terra dei fuochi”.

Ed è vero: Massa non è la Terra dei fuochi, ma intanto da sotto il tappeto dell’omertà è uscita molto polvere. Si scopre infatti che uno dei depositi è in un terreno di proprietà di Stefano Di Ronza, imprenditore edile arrestato nel 2013 per associazione a delinquere di stampo camorristico con l’accusa di concorso esterno ai clan dei Casalesi. Il “suo” deposito è cresciuto per trent’anni davanti agli occhi accecati o compiacenti di tutti: stando ai rilievi del Lidar, nel 1984 era un quarto di quello attuale e adesso ha un volume di 16mila metri cubi, il corrispettivo di 4mila camion di rifiuti. Ma nessuno appunto se n’era accorto. Un’altra montagna è quella di 18mila metri cubi, situata sul fosso Magliano, a Marina di Massa, a due passi dalla passerella di turisti. Anche in questo caso nessuno si è mai accorto di nulla.

Tutto questo è un pugno allo stomaco per una città che ancora fa i conti con il suo passato industriale che l’ha trasformata in un enorme ricettacolo di veleni a cielo aperto. La relazione di Piccinini ricorda infatti le altre 17 discariche presenti nel territorio comunale già censite dal piano regionale di bonifica delle aree inquinate, alcune delle quali mai perimetrate, cementificate e finite sotto nuove case o capannoni. È il caso dell’ex discarica comunale per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani vicino allo stadio Oliveti (funzionante a cavallo fra il 1970 e il 1978): il volume di rifiuti interrati si stima attorno ai 70mila metri cubi anche se Arpat nel 1996 scrisse solo 20mila. Della discarica poi si è persa la memoria: fu, senza nessuna bonifica, cementificata e rivenduta.

Sopra sono state realizzate case e capannoni, ma il terreno sta cedendo, probabilmente per l’assestamento dei rifiuti sottostanti. Inoltre la discarica si trova a meno di cento metri dai pozzi comunali per l’acqua a uso potabile. C’è poi, tra le storie già note, la vicenda della Buca degli Sforza, quella che era una volta la cassa di espansione di un torrente (il Canalamagro), di circa 13mila metri quadrati, diventata negli anni Settanta la discarica naturale di b, finendo per seccarsi e causare continue esondazioni nella zona. Quelle terre sono ancora intrise di idrocarburi, arsenico, zinco, piombo, mercurio, nichel e ancora e ancora. Ma di colpevoli o almeno bonifiche nemmeno l’ombra. Infine la discarica nell’area della Farmoplant, azienda sussidiaria della Montedison specializzata nella produzione di fitofarmaci, dove vennero interrati tutti gli scarti chimici della lavorazione della fabbrica, arrivando direttamente alle falde. La zona è adesso coperta da un pacchetto multistrato impermeabilizzante, che però non cancella il passato.

Articolo Precedente

Terra dei Fuochi, difendiamo il Corpo Forestale: la lotta alla criminalità passa per le indagini ambientali

next
Articolo Successivo

Centrali a biomasse: un altro percorso che di sostenibile non ha nulla?

next