Con le tonnellate di cocaina sequestrate la ‘ndrangheta avrebbe guadagnato un miliardo di euro. È scattata all’alba la maxioperazione “Santa Fe” che ha stroncato un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico internazionale. Un sodalizio che aveva le sue radici in Calabria ma con importanti ramificazioni a livello nazionale e internazionale. In tutto 34 arresti in Italia e 4 in Spagna sono stati eseguiti dal Gico della Guardia di finanza di Catanzaro che ha condotto l’inchiesta coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e dall’aggiunto Nicola Gratteri.

In carcere sono finiti i boss delle cosche Pesce di Rosarno e Alvaro di Sinopoli, padroni della Piana di Gioia Tauro. Ma anche gli Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Jonica. Nell’ambito dell’inchiesta la Dda è riuscita ad arrestare pure un latitante, ha sequestrato 4 tonnellate di cocaina e un ingente patrimonio costituito da beni immobili, quote societarie, ditte individuali, beni mobili di lusso tra il Lazio e la Calabria. L’attività delle fiamme gialle ha consentito ai pm di dimostrare, infatti, alleanze e collaborazioni tra la ‘ndrangheta della Locride e quella dell’area tirrenica. Tutti insieme facevano affari con la cocaina del sudamerica. Fiumi di polvere bianca che viaggiava all’interno dei container e sulle barche a vela.

“Santa Fe” prende le mosse dall’inchiesta “Buongustaio” (sempre coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Gratteri) e si inserisce, inoltre, in una più ampia indagine della Dea americana (operazione “Angri Pirate”) nell’ambito della quale era emerso che i fornitori di cocaina erano gli stessi delle famiglie mafiose calabresi, le uniche che godono della più totale fiducia da parte dei narcos colombiani. Le cosche reggine, infatti, riuscivano a pagare anche i carichi di “neve” che non arrivavano a destinazione e che, quindi, andavano perse. La cocaina partiva dai porti del Sudamerica e arrivava a Italia

L’attività investigativa del Goa della guardia di finanza e della Dea americana si è sviluppata non solo in provincia di Reggio ma anche in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro, dove erano radicati i principali esponenti della ‘ndrangheta o i loro referenti. Proprio in Colombia gli investigatori hanno identificato un soggetto capace di fare arrivare grossi carichi di droga nascosti all’interno di imbarcazioni a vela. Un esponente di spicco dell’organizzazione paramilitare Farc difficilmente catturabile in quanto si muove all’interno della foresta amazzonica dove dispone di basi operative, raffinerie e di un imponente apparato per la sua sicurezza.

Questo, comunque, non ha impedito agli investigatori di seguire le rotte della coca. È stato così che, nella notte tra il 25 e il 26 agosto 2014, la Dea e la Guardia Civil spagnola hanno individuato e bloccato, al confine tra la Spagna e il Portogallo, la barca “Pandora Lys” che trasportava 856 chili di cocaina purissima destinata al mercato europeo. Altri 725 chili di droga sono stati sequestrati dal Goa di Catanzaro a largo delle isole Canarie. La cocaina stava arrivando in Calabria a bordo di un veliero. Per non essere intercettati, gli indagati comunicavano attraverso le chat dei Blackberry. La cocaina non arrivava solo al porto di Gioia Tauro. L’organizzazione riusciva a interfacciarsi anche con “batterie di operatori portuali” di Vado Ligure, Livorno e Genova. Uomini al servizio delle cosche che riuscivano a fare uscire la droga eludendo i controlli della dogana.

Il boss è Antonio Femia di Locri. Secondo la ricostruzione della Procura, infatti, era lui che teneva i rapporti con i finanziatori, decidendo i canali di approviggionamento della cocaina e provvedendo a effettuare viaggi all’estero per perfezionare gli accordi con i fornitori. Femia si interfacciava anche con i boss della Piana Vincenzo e Giuseppe Alvaro i quali grazie alle loro entrature nel porto di Gioia Tauro e in quelli della Toscana e della Liguria, garantivano il recupero della cocaina una volta che arrivava dentro i container, come è avvenuto nel marzo 2014 quando Femia e gli Alvaro sono riusciti a fare arrivare in Calabria 214 chili di droga grazie a un intermediario, chiamato “Perrito”, non identificato, che ricopriva il ruolo di interfaccia dei fornitori per assicurare l’acquisto, il trasporto e l’importazione dello stupefacente in Italia.

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