Elezioni comunali a Venezia: Casson e Brugnaro destinati al ballottaggioConfesso che l’altra sera, ospite di Lilli Gruber, Alessandro Di Battista mi ha deluso.

Nella divisione del lavoro tra le seconde generazioni Cinquestelle, Di Battista ricopre il ruolo del presidiatore dei valori e – al tempo – del tribuno popolare che riempie le piazze, quasi quanto Beppe Grillo; mentre Luigi Di Maio rappresenta il volto ministeriale, pronto a sfidare Matteo Renzi al momento giusto, in quanto ferrato su questioni istituzionali e sociali (sebbene – mi permetta un sommesso consiglio – dovrebbe migliorare il discorso sull’economia: il richiamo costante al mito salvifico della piccola impresa pare un remake del fasullo “piccolo è bello” anni Settanta).

Tornando alla trasmissione, il punto clou era il ballottaggio veneziano tra Felice Casson e il berluschino Luigi Brugnaro, sostenuto da tutta la canea poujadista e fascistoide da Lega a Fratelli d’Italia. Invitato a esprimersi sulla questione, Di Battista ha fatto il pesce in barile (“gli elettori non sono pecore… decidano sulla base dei curricula e dei programmi…).

Attorno al nome di Casson si sta creando un’aggregazione informale di supporter, che trova un punto di riferimento nel sito di MicroMega: avviata da un appello di Flores d’Arcais, via via l’operazione di sostegno (e di resistenza all’anticivismo barbarico che avanza nel capoluogo veneto) ha raccolto testimonial di accertata credibilità. Da Stefano Rodotà a Ferdinando Imposimato, da Furio Colombo ad Andrea Scanzi; con il tocco esotico di Paolo Iglesias el Colete, leader di Podemos.

A fronte di tutto questo, il giovane deputato Cinquestelle si è rintanato nel catechismo del movimento, tra l’integralismo della propria purezza/alterità e il novismo ingenuo della clickdemocracy come post-rappresentanza regressiva (l’atto di fede demagogico nella democrazia diretta, tipo agorà di Atene tecnologicizzata, smascherato dal fatto che la digitalizzazione è incompatibile con la complessità: impensabile ridurre le questioni al sì/no, on/off). Dato che Di Battista non è sciocco, così dicendo trasmette la sensazione di un certo opportunismo; che contrasta con il suo ostentato rigore (vagamente cattocomunista). La stessa impressione data il giorno dopo le elezioni europee dell’anno scorso, quando prima tweettò delusione per l’esito del voto e poi – pervenuto il “contrordine compagni” dallo Staff – innalzò peana alla vittoria conseguita.

Mi rendo conto che quello Cinquestelle è un popolo, che si è raccolto attorno al Mosé Grillo in quanto capace di offrire semplificazioni rassicuranti nella traversata del Mar Rosso – Seconda Repubblica dei corrotti e dei collusi. Quelle semplificazioni che in altre stagioni aggregarono il popolo delle feste dell’Unità e – per qualche tempo – attorno al falso idolo Di Pietro. Però esiste una sottile linea di confine tra la manutenzione del consenso e la condiscendenza illusoria, la blandizia che impedisce maturazioni critiche.
Ad esempio la sacralizzazione dei programmi: molto spesso temini onnicomprensivi che riducono le soluzioni ad abracadabra. Allo stesso modo – se avessero un po’ di memoria storica – i giovani leader (massì, diciamolo) di Cinquestelle dovrebbero ricordare che il descrivere la scena politica popolata da un’accozzaglia indifferenziata di farabutti, a giustificazione del proprio isolazionismo, ricorda tanto quel disastroso “socialfascismo” con cui il Comintern staliniano a partire dal 1928 equiparò riformisti e nazisti (e che successivamente dovette rimangiarsi nei fronti popolari antifascisti). E neppure convince l’espediente del dichiararsi disponibili all’incontro su specifici provvedimenti (ovviamente sensati e utili).
In politica le prese di posizione si collocano all’interno di più generali disegni. E sono quelli che danno senso e significato all’eventuale incontro, come alla presa di distanza.

Insomma, il principio di saggezza popolare del “guardare cosa c’è dietro”. Che comporta distinzioni un po’ meno puerili. Per cui si può ammettere che la (pure) “foglia sbattuta dal vento” Ignazio Marino è altra cosa dall’arrampicatore sugli specchi della politica Matteo Orfini, come il pure mainstream Enrico Letta ha una sua dignità non solo umana che ormai è difficile riconoscere a Pier Luigi Bersani. Altrimenti c’è solo puro calcolo di convenienza elettorale (molto “marketing da politica politicante”)

Il fatto è che ormai si sono chiariti due dati: il M5S ha un suo zoccolo stabilizzato tra il 20 e il 25 per cento del voto; dunque è una consistente minoranza, che non può prescindere da strategie politiche un po’ più responsabili e costruttive del “tanto peggio tanto meglio”. Al tempo stesso procede a rullo compressore la controrivoluzione di Matteo Renzi, per conto e mandato dell’establishment (vulgo Casta); che se ne infischia dei morti e feriti che lascia sul terreno fino a quando le percentuali del voto espresso gli consentono di determinare gli organigrammi pubblici.

In questo drammatico riflusso emergono singoli soggetti e gruppi che non sono disponibili a intrupparsi sotto le bandiere pentastellate, ma che – al tempo stesso – avversano la desolazione che avanza. E che sarebbero pronti a dare una mano per riaprire i giochi che stanno chiudendosi. Dai comitati territoriali e benicomunisti a organizzazioni come Libera o Fiom. Ai  tanti “cani sciolti”.

Una forza che si oppone a tale desolazione non dovrebbe permettersi di prescindere dall’interlocuzione con tali soggetti; concordando non su punti specifici, bensì su direzioni di marcia. Il banco di prova che testimoni l’indipendenza di giudizio di chi propone la propria anagrafe come garanzia di rinnovamento, nella presa d’atto che l’onestà non è un alibi all’infantilismo (o al gregariato).
A Roma come a Venezia.

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