Mi sono approcciato a questo disco con la titubanza di chi ne aveva nel frattempo lette di cotte e di crude, giustificato – solo in parte – dall’attesa che gli stessi Muse avevano nei mesi precedenti sapientemente ‘pompato’: “Torneremo al rock”, “Sarà un disco suonato”, tutte frasi troppo facili da pronunciare una volta che i tuoi album ‘più vecchi’ non costituiscono più il tuo biglietto da visita semplicemente perché nel frattempo hai un nuovo prodotto da spingere e, lo sappiamo tutti (la lista è lunghissima), l’ultimo disco è sempre il più bello per una band o un solista. Altrimenti perché farlo uscire? Infatti.

Non posso per onestà intellettuale definirmi un ‘fan’ dei Muse e non sono nemmeno un loro ‘seguace’: sicuramente mi incuriosiscono ma non riesco ad attribuirgli meriti che vadano oltre una spiccata (questa sì) capacità di sintesi: se dovessi descriverli in due parole, direi che sono stati bravi e altrettanto furbi nel rubare a man bassa dai Radiohead e (ultimamente) anche dai Queen, con un po’ di muscoli in più – nel primo caso – e meno ispirazione – nel secondo.

Ciò detto ‘Drones’ mi è sembrato un disco migliore di come molti (legittimamente) lo dipingessero già ad un ascolto (il mio) superficiale, una spanna sopra il penultimo ‘The 2nd Law’, che li aveva visti strabordare alla conquista di territori sonori prima solo adocchiati, con la consapevolezza di chi la musica oltre che scriverla sa suonarla (specie dal vivo) con una padronanza comunque fuori dal comune.

Andando oltre i primi non troppo ispirati assaggi offerti nelle settimane precedenti l’uscita del disco con (in ordine) Psycho, Dead Inside e Mercy, i Muse vengono alla luce come li aspettavamo al varco con la quinta Reapers, dove un Matthew Bellamy in grande spolvero si riscopre magicamente chitarrista facendo il verso – nell’intro del brano – addirittura al Van Halen grezzo e primordiale (ma comunque ipertecnico) di ‘Eruption‘: ne viene fuori un pezzo tirato, aggressivo, di quelli che – per conto di chi suona – sembra gridare vendetta ma non al miracolo, quello no. Defector è invece l’altra faccia della medaglia, un tantino autoreferenziale, molto ‘di maniera’ e a discapito di qualche buono spunto (specie nel ritornello) si perde nel mare delle orchestrazioni: anch’esse prevedibili e che nulla aggiungono ma semmai tolgono. La successiva Revolt, nono brano in scaletta al netto dei discorsi e delle citazioni inserite nel disco, si candida dalla prima nota a prossimo singolo: con quella spensieratezza tanto prevedibile quanto credibile che è un po’ il marchio di fabbrica dei Muse da quando hanno messo da parte i soldi per fare una guerra, quindi già qualche anno fa. Aftermath segna l’inizio della tregua tra il trio inglese e i suonatori (altri) di cui sopra, con un incedere che specie nel finale è quasi commovente: il compromesso tiene saldo fino all’ultima ambiziosa The Globalist, che a dispetto della durata (i Muse ci avevano già abituato a simili esperimenti) invecchia bene col passare dei minuti, citando com’è nelle migliori tradizioni progressive (anche se qui parliamo per lo più di una suite pop) il meglio del background del gruppo, dai già addotti Queen passando per i Massive Attack fino ad arrivare a Bjork e Hans Zimmer.

Questo è ‘Drones’: cosa ne rimane quindi in soldoni di uno dei dischi più attesi dell’anno? Una prova saggia, a tratti entusiasmante, suonata da Dio, concepita in maniera ambiziosa ma che, complice qualche riempitivo di troppo, non rende completamente giustizia – in musica – al tema che si propone di raccontare: l’omologazione e lo schiavismo tecnologico dell’essere umano, un dramma che nel piccolo sembra aver affetto anche gli stessi Muse.

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