Una storia infinita. Iniziata un quarto di secolo fa. E di cui conosceremo una nuova puntata il prossimo 16 giugno. Data di scadenza dell’ultimo termine, fissato dai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, entro il quale la Società gestione impianti nucleari (Sogin), responsabile del decommissioning delle vecchie centrali atomiche e della gestione dei rifiuti radioattivi, e l’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra) dovranno fornire gli ultimi approfondimenti tecnici richiesti dai due dicasteri. Solo a questo punto, salvo ulteriori intoppi e ritardi, lo stesso ministero dell’Ambiente renderà pubblica la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) ad ospitare il deposito nazionale dei rifiuti nucleari, cioè la lista dei luoghi tra i quali verrà scelto il sito che ospiterà la più indesiderata discarica d’Italia. Poi scatterà il complesso iter per individuare il posto migliore dove realizzare l’opera. Sui luoghi indiziati c’è la massima segretezza. «Ma tendendo conto dei criteri fissati nelle linee guida dell’Ispra sulle caratteristiche necessarie per il deposito -dicono alcuni esperti del ministero dell’Ambiente e della Sogin  consultati da ilfattoquotidiano.it– Puglia, Lazio, Toscana, Veneto, Basilicata e Marche sembrerebbero le Regioni in pole position per accogliere la struttura». Nel frattempo, tra i Paesi che in Europa hanno vissuto la stagione del nucleare, l’Italia resta l’unico a non avere un deposito nazionale.  Ma perchè tanti ritardi? E di chi è la colpa?

SVOLTA REFERENDARIA Un iter complesso, quello legato alla realizzazione del deposito nazionale. E costellato da continui fallimenti. La «messa in custodia» di tutti gli impianti nucleari fu deliberata dal Cipe nell’agosto del 1990, tre anni dopo il primo referendum che sancì l’abbandono, da parte del nostro Paese, dei programmi di produzione di energia dall’atomo. Appena cinque anni dopo, però, l’allora ministro dell’Industria, Alberto Clò, iniziò a sollecitare un ritorno al nucleare «su basi nuove, con nuove capacità di ricerca e nuove tecnologie». Non se ne fece niente e agli inizi del 1998, la Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile presentò una risoluzione sulla sistemazione dei rifiuti radioattivi. Nel 1999, l’allora ministro dell’Industria, Pierluigi Bersani, inviò alle Camere un documento nel quale venivano fissate le strategie sulla materia, decretando lo stop del trasferimento all’estero  delle scorie radioattive per il ritrattamento. Veniva, invece, disposta la conservazione delle sostanze nucleari in contenitori di sicurezza, in attesa della loro definitiva collocazione in un sito unico. Il deposito nazionale, appunto. Parallelamente, fu affidato ad Enel il compito di costituire la Sogin. Per la quale, le linee del documento Bersani, divennero dal maggio 2001 indirizzi operativi, con un decreto firmato dall’allora ministro, Enrico Letta.

MATTEOLI PROMETTE Un nuovo decreto, nel 2003, individuò a Scanzano Jonico, il luogo più idoneo per la realizzazione del deposito nazionale. Ma nel paesino lucano scoppiò la rivolta. E, dopo una grande mobilitazione, il progetto venne accantonato  con un provvedimento che assegnava dodici mesi di tempo al governo per individuare un sito alternativo, prevedendo anche la costituzione di una commissione tecnico-scientifica composta da 14 super esperti che avrebbe dovuto supportare il commissario straordinario nell’adozione della decisione finale. Ma la commissione non ha mai visto la luce, nonostante il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli avesse solennemente promesso: «Puntiamo ad attivare il deposito nel 2008». Nonostante l’impegno sbandierato, il tema del nucleare uscì così dall’agenda politica. Per rientrarci nel 2010 quando Sogin, su indicazione del governo di Silvio Berlusconi, intenzionato a tornare al nucleare,  pubblicò una mappa di 52 aree idonee ad ospitare nuove centrali. Il documento  conteneva anche le indicazioni per il deposito nazionale e avrebbe dovuto essere valutato dall’Agenzia per la sicurezza nucleare. Ma l’organismo non è mai riuscito ad operare finendo anzi per essere spazzato via dal referendum ambientalista del 2011 che chiuse ogni possibilità di ritorno all’atomo e di rapida realizzazione del deposito.

LUNGA ATTESA  A dare una nuova spinta alla soluzione del problema, per fortuna, è arrivata una direttiva dell’Unione europea del 2011: istituisce un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi. L’Italia si è così dovuta di nuovo muovere, riavviando le procedure per individuare quell’infrastruttura di superficie dove mettere in totale sicurezza tutti i rifiuti radioattivi prodotti dall’avventura nucleare, compresi quelli generati dalle attività ospedaliere  di ricerca. «Se i tempi previsti dalla legge saranno rispettati – questo l’impegno di Fabio Chiaravalli, direttore divisione e parco tecnologico della Sogin – il deposito nazionale sarà pronto per la fine del 2024. Avrà un esercizio di 40 anni, fino al 2065, quando sarà chiuso e inizierà il suo esercizio istituzionale di circa 300 anni». Il Deposito consentirà la sistemazione definitiva di circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività: il 60% prodotto dalle attività di smantellamento degli impianti nucleari e il 40% dalle altre attività. Nel sito verranno stoccati, inoltre, in via temporanea, circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività, collocati in contenitori speciali (cosiddetti cask), in attesa della disponibilità di un deposito geologico definitivo. «La struttura – secondo Chiaravalli – occuperà un’area complessiva di circa 150 ettari, di cui circa 20 saranno effettivamente destinati al deposito definitivo. La restante della superficie ospiterà tutte le strutture di servizio, le ampie aree di rispetto e soprattutto il Parco Tecnologico, un grande campus di ricerca e sviluppo in cui impiegare i migliori ricercatori italiani e stranieri». Secondo le stime della Sogin, per la sua realizzazione è previsto un investimento complessivo di circa 1,5 miliardi di euro, di cui 650 milioni per la progettazione e costruzione del deposito nazionale; 150 milioni per la realizzazione del Parco Tecnologico; 700 milioni per le infrastrutture interne ed esterne. Si prevede, inoltre, che la realizzazione del centro genererà circa 1.500 posti di lavoro e che la sua gestione creerà a regime circa 700 nuovi occupati.

RISCHIO SCANZANO  Il nodo, però, ancora oggi resta quello di sempre: dove si farà il deposito nazionale? Stando alle linee guida consegnate da Ispra a Sogin, si procederà per esclusione. Al momento è certo solo dove non si farà. Non vengono prese in considerazione le aree vulcaniche attive o quiescenti; le località oltre 700 metri sul livello del mare o ad una distanza inferiore a 5 chilometri dalla costa; le aree a sismicità elevata, a rischio frane o inondazioni e le “fasce fluviali”, dove c’è una pendenza maggiore del 10%. Escluse inoltre anche le aree naturali protette, quelle che non siano ad adeguata distanza dai centri abitati e quelle a distanza inferiore di un chilometro da autostrade,  strade extraurbane e ferrovie. Tenendo conto di questi criteri gli esperti ministeriali e della Sogin indicano, come già detto, Puglia, Lazio, Toscana, Veneto, Basilicata e Marche come le Regioni più adatte per ospitare la struttura. Tuttavia, i criteri potrebbero subire delle modifiche. L’intento della Sogin e, soprattutto, del governo è comunque quello di evitare una Scanzano-bis. Per questo, la pubblicazione della mappa dei siti idonei ad ospitare il deposito nazionale sarà seguita da una fase di consultazione pubblica, che culminerà in un seminario nazionale dove saranno invitati a partecipare tutti i soggetti interessati. Dalle istituzioni alle associazioni ambientaliste, passando per il mondo scientifico. Solo al termine di questa complicato iter si arriverà a una versione aggiornata della Carta dei siti. Quindi si procederà all’acquisizione di possibili manifestazioni di interesse da parte di Regioni ed Enti locali. In assenza di adesioni spontanee e se non si dovesse arrivare ad una scelta concordata, ecco l’extrema ratio: a decidere sarà il Consiglio dei ministri. Ipotesi alla quale il governo in questo momento non vuole neanche pensare.

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