La fotografia scattata dall’Ocse deforma un ritratto fissato nell’immaginario collettivo: la festaiola Spagna non è paese per giovani.

Il rapporto “Youth, Skills and Employability” curato dall’organismo internazionale è impietoso, la Spagna è il paese dei precari, la seconda nazione europea con il più alto numero di borsisti con diploma, o con titolo di laurea, nel cassetto.

Il 67% dei giovani, in età compresa tra i 18 e i 35 anni, trova accesso al mondo del lavoro attraverso una borsa, solo la Slovenia fa peggio, a seguire la Spagna tre Paesi, Portogallo, Irlanda e Italia, che con il 42% è appaiata alla Grecia di Tsipras. Nella classifica della precarietà spiccano i “piigs”, acronimo crudele coniato qualche anno fa per definire le economie meno virtuose tra i paesi dell’Europa comunitaria, in realtà un marchio d’infamia usato dai frequentatori delle stanze delle cancellerie più forti per identificare i Paesi più inaffidabili del sistema, una ideale linea di confine tra la concezione bizantina della cosa pubblica ed il rigore luterano o l’inflessibilità anglosassone.

Eppure la “beca”, la borsa a termine, sembrerebbe una giusta “transizione” tra la formazione scolastica o accademica e il mercato del lavoro. Purtroppo non è così, sviscerando i dati dell’Ocse vengono in risalto gli abusi dei modelli contrattuali su cui si impernia la precarietà, le basse retribuzioni elargite dalle aziende, la scarsa formazione professionale.

Il 70% dei giovani ritiene che gli emolumenti percepiti non consentano una vita dignitosa, i compensi non coprono le esigenze primarie, quali il pagamento del fitto o la spesa corrente, il Paese iberico è quindi desolatamente all’ultimo posto della graduatoria elaborata dall’organizzazione internazionale, il 53% dei giovani italiani costretti alle medesime condizioni di precarietà ritiene di riscuotere compensi in grado di garantire i bisogni essenziali di vita.

Si addensano nubi anche sulle prospettive lavorative: la preparazione durante la pratica appare lacunosa, spesso sono i borsisti più maturi ad occuparsi della formazione dei borsisti più novelli, solo il 70% dei giovani iberici può disporre di un formatore che li segua nel corso del tirocinio professionale.

Insomma, il quadro che emerge dal rapporto dell’Ocse è tutt’altro che confortante. Nell’aprile 2008 il quotidiano El País, in un reportage di Miguel Mora, titolava: “Italia no es un país para jóvenes”… se Roma piange Madrid non ride.

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