Una legge per gli agenti di commercio. La chiede il gruppo di Sinistra ecologia e libertà (Sel) alla Camera. E il governo non esclude un intervento. La questione, del resto, è di quelle numericamente rilevante. Interessa un esercito di 240 mila persone. Che percorrono mediamente 50 mila chilometri l’anno, concludendo operazioni di vendita per conto di aziende committenti che valgono il 60 per cento del Prodotto interno lordo (Pil). Eppure, tra loro, c’è chi non riesce più ad arrivare alla fine del mese. Perché i costi dell’attività finiscono per mangiarsi quasi tutto il guadagno. Approdata nei giorni scorsi in Parlamento con un’interrogazione firmata dai deputati di Sel (Lara Ricciatti e Arturo Scotto tra gli altri), il sottosegretario allo Sviluppo economico, Simona Vicari, ha preso atto della rilevanza della vicenda definendola «meritevole di approfondimento».

CONTRATTI CAPESTRO Le difficoltà maggiori hanno colpito, in particolare, gli agenti monomandatari. Quelli, cioè, legati ad aziende che impongono contratti di esclusiva. Sono 90 mila (il 40% dell’intera categoria) dei quali il 30%, circa 30 mila, dichiara un reddito lordo di 25 mila euro l’anno. Ma ce ne sono altri 10 mila che non superano i 18 mila. Prendendo come riferimento proprio questa fascia di reddito più bassa, l’Unione sindacati agenti e rappresentanti commercio italiani (Usarci), ha raccolto in un documento l’elenco dei costi fissi a carico della categoria. Ci sono innanzitutto le spese per l’auto: 3.000 euro l’anno se ne vanno in carburante; 600 per i pedaggi autostradali; altri 3.000 per la quota di ammortamento della vettura; 1.500 in riparazioni varie e 250 per il cambio gomme (250). Ma non basta. Alberghi e ristoranti costano in media 1.000 euro l’anno mentre per telefono ed internet ce ne vogliono altri 250. Poi ci sono le tasse: 80 euro per la tassa camerale; 1.500 (il 7% delle provvigioni) all’Enasarco (Ente nazionale di assistenza per gli agenti e i rappresentanti di commercio); 3.600 all’Inps e altri 750 al commercialista. Totale: 15.530 euro, senza considerare bollo e assicurazione, a fronte di 18.000 euro lordi di guadagno. Insomma, stando alle stime dell’Usarci, una situazione insostenibile.

NORME ELUSE «Numerose segnalazioni giunte in Parlamento – denuncia la Ricciatti –evidenziano come le aziende ricorrono sempre più spesso alla stipula di mandati di agenzia pretendendo un rapporto di monomandato che, di fatto, cela la presenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato». Non solo. In questo modo, recita il testo, «si pregiudica inesorabilmente l’autonomia e la libertà di organizzazione del lavoro degli agenti che si vedono costretti a rispettare direttive particolarmente ferree e tali da incidere sulle reali possibilità di incrementare i relativi compensi». Per questo chiedono al ministro dello Sviluppo economico, vista anche la consistenza della categoria (240mila lavoratori) un intervento legislativo che permetta, per gli agenti monomandatari «che non riescano a raggiungere un reddito minimo lordo pari a tre volte la retribuzione lorda di un lavoratore dipendente di settimo livello del contratto di commercio», la trasformazione «automatica» del contratto «in plurimandato». Soluzione sul modello di quella già applicata al caso degli agenti assicurativi. Proposta che ha incassato aperture dal sottosegretario Vicari: «Valuto la questione meritevole di approfondimento, ma da svolgersi necessariamente con il contributo delle amministrazioni competenti». Anche per quanto concerne, ha aggiunto l’esponente dell’esecutivo, il «rischio di un uso distorto dei mandati di agenzia», spesso utilizzati come strumento «di elusione» per nascondere «veri e propri rapporti di lavoro dipendente».
Twitter: @Antonio_Pitoni

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