Tsgabu Gebremaryam Grmay, ce l’hai fatta! Hai tenuto a bada il buda, il malocchio come lo chiamate voi dalle parti di Macallé, dove si crede che abbia il potere di trasformare le persone in perfide iene, chissà se ti sei portato da casa un talismano o un ciondolo per scacciare gli spiriti maligni che avrebbero potuto giocarti un brutto scherzo. In questo Girum 2015 non c’è mai stato un giorno tranquillo, quanto a incidenti, cadute, problemi meccanici, forature, infezioni: sabato, per esempio, si è dovuto ritirare per un virus intestinale il decano della corsa il grande velocista Alessandro Petacchi, 41 anni e mezzo, una beffa, alla penultima tappa, per chi ne ha vinte 22 in quattordici partecipazioni.

Nel Giro del 2004, conquistato da Damiano Cunego (finito all’ospedale l’altro giorno dopo essersi rotto una clavicola cadendo nella tappa di Verbania, giovedì scorso) “Ale-jet” (il soprannome che Petacchi si era guadagnato in furibondi sprint) spadroneggiò in modo esagerato: trionfò nove volte e aveva per avversari gente come Robbie McEwen che si considerava il numero uno del mondo… Petacchi ci teneva ad arrivare a Milano e magari tentare il colpaccio d’addio, dominare la volata battendo ragazzi che potrebbero essere quasi suoi figli. Invece oggi non c’è stato il tradizionale sprint che avrebbe potuto ribaltare la classifica a punti.

E qui stendiamo un velo pietoso. Il gran pubblico di Milano si aspettava il volatone finale, nel lungo corso Sempione: per il suo carico da novanta di brividi e rischiatutto. Macché. Per insipienza delle squadre, per stanchezza dei 163 corridori superstiti – è stato un Giro tiratissimo – e anche per conticini da ragionieri, a una trentina di chilometri dall’arrivo c’è stato un allungo, a metà del secondo giro. Ormai è tradizione che l’ultima tappa del Giro sia una sorta di “passerella”, con show finale, appunto, lo sprint al fulmicotone. Per questo viene allestito un circuito: oggi bisognava ripeterlo sette volte, lungo 5,4 chilometri a tornata.

Dunque, succede che i team dei velocisti sottovalutino il belga Iljo Keisse della Etixx-Quick Step e l’australiano Luke Durbridge: due passisti di grande caratura, con passato da pistard. Keisse e Durbridge pigliano il largo e rollano a più di cinquanta all’ora. Dietro, le squadre dei velocistini Sacha Modolo, Elia Viviani e Giacomo Nizzolo litigano, i corridori si minacciano allargando gomiti e tagliando la linea agli avversari, che sono costretti a sfiorare le transenne. Il tutto, al limite del regolamento. In palio, la maglia rossa della classifica a punti che per il momento sta sulle spalle di Nizzolo, sette volte secondo e mai una primo. Al Balmanion delle volate – il piemontese che vinse due Giri senza mai conquistare una tappa – la fuga dei due conviene, eccome.

I più incavolati sono quelli della Lampre di Modolo e del nostro Tsgabu che prudentemente resta lontano dalla banda dello sprint. Stavolta, come il nostro etiope lo fanno in molti, persino Contador che perde una decina di secondi nei confronti di Fabio Aru. Il belga e l’australiano raggiungono addirittura quasi un minuto di vantaggio. E’ fatta. Così, è andata in scena una volata a due più da pista che da strada. Cinquecento metri stop and go, prima dello schizzo finale. Keisse e Durbridge si studiano, rallentano, scartano, cercano di non restare l’uno a ruota dell’altro; Durbridge rompe gli indugi, lancia la volata. O meglio, l’abbozza. L’Orica GreenEdge dell’australiano ha avuto parecchio da questo Girum, quattro giorni in maglia rosa con tre corridori diversi, e vinto due tappe (la crono a squadre di Sanremo, e una con Matthews). La Quick Step, invece, è a secco. Il belga è più veloce di Durbdrige, l’australiano lo sa. Ma non può platealmente rinunciare allo sprint più importante del Giro.

Il copione è rispettato. Keisse inarca la schiena, sdruma tutta la potenza da pistard, lo rimonta in un amen, lo fulmina con una progressione implacabile. Vince “la gara più importante della sua vita”. Ha 32 anni e mezzo, è simpatico, è di Gand, i genitori gli hanno dato un nome russo, “però con la Russia non c’entrano niente…”. Ha un passato di Sei Giorni ed “americane”, specialità della pista che affinano astuzia, coraggio e spregiudicatezza. Lui ha vinto due titoli mondiali, nel 2005 a Los Angeles (specialità “madison”) e a Palma di Maiorca (2007, gara a punti). Insomma, non è un corridore banale. Come non lo è la stragrande maggioranza dei corridori di questo Giro.
Mentre taglia la linea d’arrivo, alle sue spalle si staglia il gruppo. Si allarga a ventaglio, per una volata anarchica, dispettosa, inutile, nove secondi dopo Keisse. Nizzolo conserva la maglia rossa. Il pubblico applaude lo stesso, i sette giri del circuito sono stati divorati ad oltre 51 di media. La velocità e certe curve trabocchetto sfilacciano il gruppo, che arriva alla spicciolata, Aru è coi velocisti, Contador passa nove secondi dopo il sardo, l’ultimo, l’australiano Michael Hepburn, chiude il Giro d’Italia edizione 98 a 6’31”. Diciamo la verità. Le salite hanno spaventato l’élite dello sprint mondiale. In questo Giro non abbiamo la qualità dei leggendari “treni” dei tempi di Mario Cipollini, di Erik Zabel o del micidiale russo Abdujaparov, per non parlare di Mark Cavendish o Alexander Kristoff. Che vedremo al Tour fra cinque settimane. Questione di marketing: i velocisti più quotati del mondo preferiscono la platea della Grande Boucle.

Non so come si dice “complimenti!” in tigrino, l’idioma della regione etiopica di Tsgabu, tantomeno in amharico, la lingua ufficiale del suo Paese. Ma parla bene l’inglese e sta incominciando a capire l’italiano, facilitato anche dal fatto che il lessico del ciclismo a Macallé, dove è nato, è assai familiare alle nostre orecchie: per esempio sella si dice…”sella”, bicicletta “bisklet”, pedale “pedal” e così via. E poi, nel ciclismo la lingua della fatica non ha confini, è la stessa per tutti. Vi intendete subito, nel gruppo. Aggrappati al manubrio, a rosicchiare le energie risparmiate. Può comunque essere per davvero soddisfatto. Perché è stato ciclisticamente fortunato: il Giro d’Italia 2015 al quale ha partecipato e che ha concluso in novantunesima posizione su 163 arrivati al traguardo finale di Milano, a 4 ore 20’33” dalla maglia rosa, è stato infatti tra i più movimentati degli ultimi anni, soprattutto è stato senza requie. Vissuto sulla sfida infinita tra l’Astana e la Tinkoff, tra l’irruenza dei giovani Fabio Aru e Mikel Landa, e l’esperienza e la classe di Alberto Contador, che ha saputo dissimulare il suo calo, e tante altre cose. Un grande attore. Contador, El Actor prima ancora che El Conquistador. Impara, Tsgabu. Le corse si vincono anche quando le gambe cedono.

Al Colle delle Finestre, per esempio, Contador ha messo alla frusta la sua squadra per ingannare l’Astana e farle credere di puntare al traguardo del Sestriere. Lo scopo d’El Actor era un altro: costringere l’Astana ad attaccare il più tardi possibile. Nelle ultime due tappe di montagna Aru ha strappato a Contador quattro minuti: molti, però non tutti quelli che servivano. Quanto a Landa, è stato leale con Aru, ha eseguito gli ordini di scuderia ed è stato sfortunato: coinvolto in una caduta nella tappa di Verbania, non è stato in grado di riagguantare Contador che gli ha restituito, con interessi, il distacco dell’Aprica (ricordate l’inseguimento della maglia rosa al Mortirolo?). Landa correrà da capitano la Vuelta. Ieri ha pianto lacrime amare. Il terzo posto gli va stretto.

Nell’ultima conferenza stampa, Contador è andato in fuga nelle risposte. Gli chiediamo di spiegare il misterioso cambio di ruota nella discesa dell’Aprica, tra lui e Ivan Basso. La tesi della foratura, per chi ha scrutato bene la scena, non regge. Basso passa la sua ruota al capitano, che gli consegna la sua. Per due volte Contador ripete che la ruota era bucata. Però Basso ha continuato a correre, non dava l’impressione di avere la ruota “pinzada”. Il sospetto del “motorino” nascosto nella ruota scambiata ha avvelenato il dopocorsa, alla luce del mirabolante recupero di Contador: “Se avessi usato il motorino, sarebbe stato ridiculo – stupido – usarlo in discesa, l’avrei fatto ai piedi del Mortirolo…”.

Vedi, caro Tsgabu che oggi sei arrivato 138esimo a 2’44” da Keisse, le polemiche sono il sale del ciclismo, l’inganno – la slealtà targata doping o aggeggio elettrico – è l’avversario peggiore del Campione, il mal sottile di uno sport che fa rima con sacrificio, con sofferenza, con stanchezza. Il Giro è la corsa a tappe più dura del mondo, la più bella per i suoi percorsi, e per quella cultura del territorio che aggiunge all’epica sportiva la sapienza della storia e dei popoli che l’hanno attraversata. Considera questo tuo primo Giro, una sorta di praticantato, una scuola di vita e di sport. Tu sei un tigrino, la tua è gente fiera, indipendente, molto legata alla terra. Gli eroi dello sport del Tigrai hanno calpestato la terra di tutte le corse a piedi del mondo, spesso dominandole. Anche il ciclismo è sport di strada. E la bicicletta, come scrisse Gianni Brera, è nata come anticavallo, come strumento di emancipazione. Di libertà. Di fuga in avanti.

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