Una norma ambigua, soggetta al rischio di contenziosi legali. Ancora una volta si parla del Jobs act, la riforma del lavoro del governo Renzi. In questo caso, a segnalare i rischi insiti nella legge è Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro di Silvio Berlusconi e presidente della relativa commissione in Senato in quota Ncd, le cui critiche alla riforma non sono certo una novità. A finire nel mirino è l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle prestazioni organizzate dal committente. Una norma fatta per eliminare le collaborazioni “mascherate“, ma che, secondo Sacconi, rischia di interessare anche le più genuine forme di lavoro autonomo e, di conseguenza, di generare ambiguità e contenziosi legali. Ma il senatore Ncd non è certo il primo a parlare di possibili ricorsi in tribunale innescati dalla riforma: i consulenti del lavoro hanno già parlato di un rischio di incostituzionalità insito nel decreto sul contratto a tutele crescenti e anche gli articoli relativi al demansionamento destano le perplessità degli addetti ai lavori.

Ora, l’attenzione è focalizzata sul decreto relativo al riordino dei contratti. Il provvedimento è stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri del 20 febbraio. Poi è passato all’esame delle Camere e nelle prossime settimane avrà il via libera definitivo dal governo: l’esecutivo può ancora, anche se non è vincolato, modificare il decreto in base ai rilievi presentati dai parlamentari. Nel parere redatto dalla commissione Lavoro del Senato si legge che nel provvedimento “vi sono poi norme incerte che ampliano la discrezionalità del giudice e possono accrescere il contenzioso giudiziale, come la fondamentale disciplina della separazione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo di cui all’articolo 47″. Nel dettaglio, questo articolo prevede che, a partire dal 2016, si considerano lavoro dipendente tutte quelle “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro“.

“Scritta così, la norma si può applicare anche al più genuino dei lavori autonomi – spiega Sacconi a ilfattoquotidiano.it – Se c’è una definizione ambigua, non idonea, non precisa, del confine tra lavoro dipendente e non, si rischia il contenzioso. Che può nascere non solo dal lavoratore, ma anche dall’attività ispettiva“. In particolare, l’articolo in questione individua due criteri per considerare un’attività lavoro subordinato, che non hanno convinto la commissione Lavoro del Senato. Il primo è quello del “contenuto ripetitivo“. “Ogni lavoro autonomo – precisa Sacconi – ha caratteristiche di ripetitività, anche i più qualificati come il chirurgo o il grande avvocato. Quindi questo non può essere un elemento caratteristico della subordinazione, è troppo presente in qualsiasi lavoro”. Non a caso, anche i colleghi della commissione Lavoro della Camera hanno chiesto di eliminare questo criterio.

L’altro nodo è quello del lavoro organizzato dal committente. Stavolta, secondo i senatori della commissione, questo criterio non va cancellato, bensì precisato, aggiungendo una parola: “Unilateralmente“. “Ogni volta che un collaboratore rende una consulenza – ragiona Sacconi – si inserisce all’interno dell’organizzazione del committente. Ma questa determina lavoro dipendente solo quando è unilaterale, ovvero non concordata. E’ l’unilateralità che fa la differenza, perché rivela un rapporto gerarchico“. Per spiegare meglio questa situazione, il senatore utilizza un esempio. Un consulente informatico concorda con un imprenditore i giorni e gli orari in cui va in azienda. In questo caso, gli ispettori del lavoro possono considerare la sua attività come lavoro subordinato perché ha una postazione fissa e rispetta determinati orari. Facendo così partire il contenzioso.

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