Lo show business è composto di specificità mutevoli. Così prima del cinema si andava a teatro per vedere la messa in scena di una storia, poi la funzione è stata accaparrata dallo schermo in sala e dopo ancora le storie si sono concentrate sullo schermo di casa. Così da tempo il teatro più che azioni allestisce situazioni e la sala cinematografica, più che mostrare “storie” è divenuto il luogo dove provare la “potenza” dell’espressione, che satura occhi e orecchie, con quella della condivisione. Per questo è nella sala, dove stai a mani vuote, che le parole ti si inchiodano in testa molto più che a casa col telecomando pronto a servire ogni capriccio. Per non dire della sincronia emotiva e cognitiva con gli sconosciuti vicini, che “fa comunità”, sia con Fast and Furious sia con il cinema d’autore.

Per questo ieri eravamo parecchi, per di più nel bel mezzo di un pomeriggio infrasettimanale, quando di solito gli spettatori sgocciolano anziché essere marea, per l’ultimo film di Sorrentino Youth. Sarà il pomeriggio infrasettimanale, sarà l’empatia generazionale per Michael Caine e Jane Fonda, il cast del pubblico in sala era di proporzioni simili a quello sullo schermo: cinquanta, a occhio e croce, anziani riflessivi e un paio di post giovani curiosi.

A sintetizzarne molto sommariamente il senso, diremmo che Youth per Sorrentino & Co. più che uno stato del corpo è una condizione della mente. Così, finché hai da fare e sai perché lo fai, insomma finché sei “utile”, non invecchi davvero e puoi, al massimo, essere abbattuto da una malattia. Ma senza soffermarci ulteriormente sul piano del significato, preferiamo piuttosto guardare alla potenza dell’espressione: aforismi, situazioni, paradossi, coreografie, paesaggi. Paragonabile per questo al “Racconto dei racconti” di Garrone, che ci eravamo visti qualche giorno prima nella stessa multisala e con un pubblico che se non era lo stesso poco ci mancava.

E così, mentre nel buio guardavamo allo schermo e origliavamo ai sussurri dei nostri compagni di platea, pensavamo all’industria italiana del cinema e ci sembrava che, un Sorrentino qua un Garrone là (gente che muove la cinepresa come Napoleone l’artiglieria), stessero riuscendo a fare proprio della “potenza” visionaria il contrassegno indispensabile per godere di una riconosciuta identità nel mare magnum del cinema globale. Dopo un tempo infinito di chiusura sulla domesticità e sulla irrilevanza. Come non accadeva, salvo le eccezioni che confermavano puntualmente la regola, dai tempi “C’era una volta l’America” e dell’”Ultimo Imperatore”, tanto per fare qualche esempio. Prima che l’ondata di cavallette di una televisione duopolistica e d’accatto stroncasse le potenzialità dell’industria nazionale

All’arrivo dei titoli di coda, il pubblico non è schizzato via dalle poltrone. Non a causa dell’età, ma perché così capita al cinema quando la faccenda ti ha coinvolto e la stai ancora metabolizzando.
All’uscita, non mancava nessuno, a occhio e croce e dunque tutti erano ancora, più o meno” nella loro Youth. Pur avendone appena consumate due ore.

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