Se fossi un po’ più gay, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe”. (Gianni Clerici)
Ti fai dare mezzo chilo di mozzarella di Aversa freschissima, assicurati che sia buona, piglia queste dita, premi la mozzarella, se cola il latte te la pigli, se no desisti”. (Totò, “Miseria e Nobiltà”)

infedele-lineaNon di teatro trattiamo stavolta. Ma di letteratura scritta da un critico teatrale con sullo sfondo molte atmosfere generate nello spazio tra il boccascena e le quinte, tra le assi del palco e le americane, in quel luogo-non luogo molte volte più vero e reale di tutto quel che gli si aggira intorno.

Andrea Porcheddu da trent’anni è un tutt’uno con il mondo del teatro: ne vede a tonnellate, ne scrive a quintali, ne parla a chili. Sigaro toscano in bocca, sarcasmo, generosità nel darsi. Sempre con uno sguardo fluido mai ricalcato, fresco da sotto i suoi occhiali timidi, da sotto quella barbetta pungente come le sue affermazioni, mai inutilmente polemiche. Alla sua terza prova letteraria, “Infedele alla linea” gioca nel titolo con l’opposto di una delle bandiere dei CCCP, anzi cavalcandola, “fedele alla linea, la linea non c’è”, dicevano. Troppo facile essere coerenti e surfare le onde giuste. Riesce a tutti. Fedeltà che per un intellettuale, per uno spettatore privilegiato di teatro, non può essere che un limite. Lo sporcarsi, la contaminazione, il cambiare verso (davvero), il farsi spugna di percezioni è la porta della ricchezza alla quale non tutti quelli che fanno il mestiere di Porcheddu hanno accesso.

Le quasi trecento pagine d’inchiostro (Maschietto Editore, 18 euro) ci confermano la solidità della penna, la schietta decisione, i lampi liquidi ed imprevedibili che già abbiamo avuto modo di notare e apprezzare in questi anni di militanza comune tra teatri di provincia e pizzerie di periferia a mezzanotte, senza i lustrini e i cocktail che accompagnano altri lidi, altre ciurme più variegate e meglio sistemate, sicuramente più lungimiranti. Porcheddu scrive, molto, e bene. Qui è anche supportato dalle notevoli tavole disegnate dall’artista Cristina Gardumi che soltanto negli ultimi tempi ha prestato i suoi uomini animalizzati inquieti per le piece “Alla luce” di Roberto Bacci e “La prossima stagione” di Michele Santeramo. Un’altra penna teatrale.

Un testo che si fa drammaturgia e sceneggiatura. Le immagini non scorrono ma diventano, in maniera tridimensionale appaiono. Il buio, gli stacchi, i respiri, le pause, le attese, la luce che prende campo. Ci sono due modi di intendere il vedere, e lo scrivere, di teatro: da una parte il militante, quello delle cause perse, coerente fino all’autodistruzione, escluso dal sistema che conta, dalle poltrone più comode, dai cocktail con il vino gran riserva (e pare proprio di intravedere lo stesso autore), dall’altra parte il prezzolato, affermato, attempato con doppio cognome, una sorta di Jep Gambardella (e chi è nell’ambiente sa perfettamente verso quale biografia rivolgersi). Due mondi non solo opposti ma che inevitabilmente entrano in frizione. Tra loro una donna (c’è sempre un’Elena tra due modi di vedere il mondo). “Infedele alla linea” dovrebbe diventare la Bibbia dei giornalisti di teatro, apre una miriade di spunti, infinite riflessioni sul mestiere, senza mai consegnare soluzioni. C’è anche un certo nichilismo e spleen, una rassegnazione (gaberianamente “la mia generazione ha perso”), un arrovellarsi amletico. E infatti arrivano tutti, alla spicciolata, questi fantasmi, padri putativi che ingannano e salvano: Artaud e Cechov, Bene e Goldoni, Camus e Beckett, Brecht e la Kane. Ma anche tanta voglia di lottare. Non è Davide contro Golia, potrebbe essere invece Icaro. Disfattista, distruttivo, autolesionista, anche apocalittico, ma con una gran voglia di vivere, vedere, scoprire.

Ed è anche un manifesto personale, un grido di protesta e di sconforto, un pugno al cielo carico di rivalsa, non certo un testamento o un epitaffio, ma una cornice che rimette insieme i punti essenziali e salienti di una professione che non può essere condotta come se fosse un mestiere qualsiasi. Come dovrebbe essere per ogni ruolo lavorativo. Che, se fatto bene, non pesa, non è fatica, ma emancipa, migliora e non svilisce né svuota. E’ anche un inno al cibo, ed al mangiar bene, in tempi di Expo. E’ divertente e caustico, depresso e cinico, debordante e rappresentativo. In un continuo palleggiarsi tra le due vite, il critico che ce l’ha fatta e quello ai margini, unite dal cordone ombelicale del teatro, si innesca la minaccia da parte della mafia di eliminare Ascanio Celestini (vi ricordate La Russa che nel 2011 chiamò l’affabulatore romano “Tony Coglione”?), e i servizi segreti deviati.

Il teatro è una magnifica illusione che a volte getta agli inferi, altre salvifica. Che il teatro è quella cosa inutile che non ci fosse il mondo sarebbe peggiore. Un libro di quelli da sottolineare, un libro che fa nomi e cognomi, che dovrebbe essere adottato nelle università di giornalismo. Porcheddu, se lo conosci, non lo eviti. Anzi, cerchi di frequentarlo il più possibile.

Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita”, Eduardo De Filippo.

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