Parafrasando Paolo Isotta, uno dei rari piaceri dello spirito è ascoltare una buona esecuzione delle musiche di Mahler. Mi capita dunque, martedì 12 maggio, di andare all’Auditorium di Roma, Parco della Musica, ad ascoltare la Quarta Sinfonia. L’orchestra sarà diretta da Myung-Whun Chung, insignito due volte dell’importante premio Franco Abbiati come miglior direttore d’orchestra. La Quarta di Mahler mi piace moltissimo e, con buona pace di Salvatore Accardo, mi piace anche il quarto movimento.

La serata comincia già in modo strano, sulla Seconda Sinfonia di Beethoven che apre il concerto, pare che Chung, inevitabilmente seguito dall’orchestra, abbia una certa fretta. Non è una cosa particolarmente scandalosa, anzi non lo è affatto, ma i tempi sono accelerati, gli archi corrono e di quell’era del passaggio dal classicismo all’epoca romantica di cui il grande Ludwig è il campione, nella Seconda non ne resta nulla.

Dopo l’intervallo, l’organico dell’orchestra si allarga. Mahler è esigente da questo punto di vista, ma la Quarta per sua natura, può anche sopportare un organico leggermente più ristretto alla prescrizione. Pochi minuti trascorrono dall’inizio del concerto, e si intuisce subito che non assisterò ad una esecuzione leggendaria. In questi casi non è possibile evitare paragoni. Mi viene in mente la Nona (parlo sempre di Mahler) diretta da Antonio Pappano, la Seconda da Claudio Abbado, o la prima parte incompiuta della Decima da Giannandrea Noseda. Non so cosa pensare né cosa dire. Gli equilibri tra le sezioni mi sembrano contraddire le indicazioni dello stesso Mahler; i legni sono sovrastati dagli archi, gli ottoni non raggiungono mai la qualità di quell’acme dopo la quale Gustav esige delle cadute che Jameson trovava un po’ scontate ed io personalmente drammaticamente insuperate. Le percussioni poi hanno un che da banda di paese per il rapporto tra sonorità e timbro in relazione al resto dell’orchestra. Ma il peggio, almeno per le mie orecchie, deve ancora venire.

I brevissimi silenzi che nella musica di Mahler devono assumere il significato della ripresa di un respiro ansimante, il direttore sud coreano ce li restituisce come pause meditative di un giardino zen: semplici, uguali, senza nessun afflato, come respirazione di un esercizio distensivo. Le cadute vorticose, che nelle intenzioni di Mahler devono sopraggiungere come catastrofi dell’animo, sono ridotte ad ordinate discese con l’ascensore e che dunque più di una riflessione sull’abisso in cui può cadere la disperazione, sono quasi al limite dell’effetto di un lettore di cassette di cui si stanno scaricando le batterie.

Per gli appassionati di Mahler, la conduzione di Chung è disperante perché è formalmente corretta e dunque, le manca solo l’anima. Mi guardo intorno e mi accorgo che qualcuno comincia a dare segni di insofferenza; verso la metà del terzo movimento, sento a poca distanza da me un anziano signore che sussurra alla moglie: “è irriconoscibile”. Non posso dare torto a questo spettatore, mi trovo difronte ad una amalgama sonora dove dinamiche, assolvenze e dissolvenze dei suoni sono semplicemente degli esercizi da lezione di Conservatorio.

A questo punto, quanto al quarto movimento, prevedo una catastrofe. La bellissima Quarta si chiude infatti con “La vita celeste” che il bravissimo Salvatore Accardo, in un gioco radiofonico, definiva come uno dei brani musicali più brutti mai scritti. Il gioco consisteva nel fare ascoltare il brano ai radioascoltatori e poi, tramite sms, decidere se Accardo aveva torto o ragione. I partecipanti gli diedero torto, se non ricordo male, quasi all’ottanta per cento. Sono quasi sicuro, che se l’esecuzione trasmessa non fosse stata quella di Georg Solti, ma questa di Chung, Accardo avrebbe probabilmente vinto. In questa vita celeste, eseguita dal direttore sud coreano, resta di celeste solo l’idea che tutto presto finirà e mentre alcuni spettatori, compreso il mio vicino, cominciano ad abbandonare la sala, ascolto un tintinnio di campanelli e di legni flebile, meccanico, privo di quell’argento e di quel riverbero di luce che una buona esecuzione dovrebbe trasmettere. È desolante, non c’è nulla… Tra gli squilli degli ottoni, l’ennesimo fortissimo ostentato in modo muscolare, privo di qualsiasi espressività, entra il soprano. In lei, il pubblico che ama Mahler, ripone le ultime speranze di godere di un po’ della magia della musica del genio Viennese. Purtroppo la voce della cantante è appena percepibile, soprattutto nel registro medio. Invece di venir fuori come quella voce sola verso l’alto che Mahler esigeva, essa è sommersa dal resto dell’orchestra e la direzione continua con una attitudine simile ad una messa in ordine dei suoni. È strano, Chung sembra più preoccupato di contenere la luce di Mahler che di assecondarne l’espansione.

Eppure da ultimo, Mahler non riesce a farmi abbandonare la sala completamente privo di un piccolo lampo emotivo. Penso a Giorgio Albertazzi. Ero nel suo camerino a Milano prima di una rappresentazione, e a degli studenti di un’accademia che gli chiedevano cosa leggere per una esercitazione, lui rispose: “Dante, Dante: resiste alle peggiori letture!”.
Forse che Mahler, resiste anch’egli alle peggiori letture?

So che Chung è un bravissimo direttore d’orchestra. Difronte alla sua esecuzione mi chiedo allora se ancora una volta non sia il caso di abbandonare l’idea che la grande arte parli a tutti, che sia un fatto quasi istintivo, che introduca in una sorta di mondo naturale in cui la bellezza è carpita per il solo fatto di esistere (penso ad esempio alle assurdità di Baricco). Sono sempre più convinto dell’intelligente osservazione con cui Sinopoli concludeva un suo breve saggio su Wagner: molti autori producono arte da pensare, ancor prima che leggere o ascoltare. Di certi autori dunque, mi permetto di aggiungere, diventa fondamentale la loro comprensione intellettuale.

P.s. In disaccordo con il critico, la maggior parte del pubblico ha applaudito a lungo.

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