A costo di diventar noioso, torno a parlare di scuola. Da poeta stavolta, non da insegnante.

Non lo faccio per intervenire su questo, o quell’aspetto della cosiddetta “buona scuola” renziana, ma, più modestamente, per riflettere sul significato di due parole (di due espressioni, se preferite) che vengono usate spessissimo a proposito di scuola.

Intanto, a parere di molti, almeno a parere di quasi tutti quelli che di scuola parlano e scrivono sui media mainstream, la scuola sarebbe un’azienda.

Proprio qualche mattina fa l’ennesimo economista chiamato a dare il suo parere sulla scuola durante un servizio di RaiNews24 (ma perché occorrerebbe chiedere il parere di un economista sulla scuola? a me pare che sia come se si chiedesse a un poeta, o a un chimico, un parere sulla prossima riforma fiscale, o sui mutui subprime) sosteneva che la scuola fosse un’azienda che eroga servizi.

Davvero? A me non risulta.

A me risulta, piuttosto che, come sosteneva Calamandrei, la scuola, per la nostra Carta costituzionale, sia un’istituzione.

Un’istituzione non eroga servizi, piuttosto realizza diritti. Il suo fine non è quello di accumulare profitti, ma promuovere conoscenze e ‘competenze’.

Nel caso della scuola si tratta di diritti, conoscenze e ‘competenze’ basilari: quelli degli allievi di imparare a essere, prima di tutto, cittadini coscienti e responsabili, tanto dei propri diritti, quanto dei propri doveri e quelli degli insegnanti di professare la propria disciplina in piena libertà, per realizzare il fine di garantire alla società la formazione di quei futuri cittadini di cui sopra, educati al difficilissimo compito di esercitare la libertà.

Trasformare la scuola in un’azienda (e i suoi insegnanti in operai alla catena di produzione di qualcosa che non è più possibile chiamare ‘cultura’ e meno che mai ‘cultura dei diritti’, o i suoi allievi in ‘clienti’ di un market dove possono scegliere il prodotto più conveniente, o alla moda) significa colpire alla base le fondamenta di una società democratica, dividere diritti civili e diritti politici alla maniera del Bonaparte.

Chiamare azienda la scuola, insomma, non è soltanto un’espressione irragionevole, priva di senso comune, ma anche l’ultimo segnale, devastante, di una società in cui la dimensione economica pretende di sovrastare ogni altro ambito della vita umana. Fino a imporre al linguaggio che le uniche metafore legittime siano quelle che a essa rimandano.

Fin la famiglia è oggi un’azienda, si sa, e, soprattutto, ogni azienda è una famiglia: peccato che i genitori di codesta famiglia (una volta si diceva: i padroni) si comportino poi come Chronos e divorino i propri figli…

Tutto ciò, da umile operaio delle parole quale sono, mi inquieta e mi inquieta ancora di più che a parlare per prima della scuola-azienda, spacciandola per una trovata avanzata e ‘moderna’, sia stata la Sinistra.

Ma ricordarlo mi aiuta a non stupirmi più di tanto che sia proprio essa a concludere, oggi, un lavoro appaltato per qualche decennio alla Destra.

Da Berlinguer a Renzi: tout se tient nella cosiddetta, sinistra, Sinistra italiota.

Un altro dei cavalli di battaglia di questo nuovo tentativo di riformare la scuola italiana a forza di decreti è poi l’idea del cosiddetto preside-sindaco.

Il preside-sindaco giunge infine a sostituire l’ormai stanco e liso preside-manager.

Difficile, peraltro, convincere qualcuno che il suo lavoro sia quello di manager, se ciò che si trova ad amministrare sono solo pochi spiccioli stenterelli, raschiati dal fondo del barile. Meglio, allora, dirgli che sarà un sindaco, altrettanto povero, magari, ma almeno in condizione di prendere decisioni.

Un sindaco è figura più amichevole e più autorevole di un manager.

Ma un sindaco non viene nominato, viene eletto. Almeno da quando l’Italia è una Repubblica. Un sindaco, se svolge male il suo compito, difficilmente potrà essere scelto dai suoi cittadini per un altro mandato.

Dunque, invece di rimandare al mittente la proposta del preside-sindaco, imho, i docenti italiani dovrebbero accettarla e farla propria.

A patto, però, che davvero di un preside-sindaco si tratti, a patto, cioè, che il Governo faccia davvero ciò che dice di voler fare e non pretenda di cambiare addirittura il significato corrente delle parole.

Un preside-sindaco sarà, a lume di ragione, eletto dai suoi cittadini-insegnanti (e magari da genitori e allievi), dovrà rendere loro conto della sua amministrazione, sarà la realizzazione massima della ‘collegialità’, non la sua negazione.

Altrimenti, a norma di vocabolario, meglio chiamarlo sindaco-prefetto, o sindaco-federale: avrà meno appeal, ma almeno avremo usato le parole per far fare loro ciò che devono fare: descrivere e conoscere la realtà, non mascherarla.

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