Dal Newroz di Diyarbakir, il capodanno curdo festeggiato da due milioni di persone, ai campi profughi di Kobane. Duecentoventi km di strade sterrate, percorse da un videomaker piacentino partito assieme ad altri centotrenta cittadini italiani con Uiki Onlus (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), alla scoperta di un popolo stretto tra lo Stato turco da una parte e l’assedio dell’Isis, dall’altra.

Il Newroz di Diyarbakir
Per 40 lire turche, un anziano signore in tuta seduto ai comandi di una gru, ci invita a salire. Il montacarichi è traballante, ma non c’è spazio per pensare alla sicurezza. A 15 metri di altezza, la meraviglia ruba il tempo all’inquietudine. Da qui, in un campo alla periferia di Amed, città ribattezzata Diyarbakir dallo stato turco, il fuoco che nella leggenda annunciava la vittoria sul tiranno, oggi si diffonde dai falò accesi dai manifestanti a simbolo della rinascita del popolo curdo. La battaglia decisiva di Kobane, in Siria, contro le milizie dell’Isis ha ridato speranza e visibilità a un popolo dimenticato dalla storia. A 200 km dal confine siriano, due milioni di persone festeggiano il Newroz, il capodanno curdo, sventolando le bandiere del Pkk (Partito curdo dei lavoratori) e del Ypg, l’unità di protezione popolare di stanza in Siria. Alle radici di un popolo negato, l’affermazione della propria identità va di pari passo con la memoria dei guerrieri partiti per il confine a combattere una guerra che si vorrebbe di liberazione, ma è ancora una questione di sopravvivenza. Non c’è sguardo, tra i tanti presenti in questo giorno di festa, che non nasconda la sofferenza per un famigliare partito per combattere in Rojava, l’area settentrionale della Siria abitata prevalentemente dai curdi, e mai più tornato.

Asi Abdullah, co-presidente PYD, il partito che governa il Rojava: “La nostra idea è una regione democratica. Tutte le etnie devono convivere e avere rappresentanza nelle amministrazioni dei cantoni”

Il Rojava è un laboratorio in cui si sperimenta una nuova società fondata sulla parità di genere e la convivenza pacifica tra diverse etnie – ci spiega Asi Abdullah, co-presidente PYD, il partito che governa il Rojava. “Abbiamo creato 3 cantoni autonomi, non solo per curdi ma per tutti i popoli presenti (arabi, assiri, esidi, ndr); la nostra idea è una regione democratica. Tutte le etnie devono convivere e avere rappresentanza nelle amministrazioni dei cantoni”. Un’idea che assomiglia tanto a quel confederalismo democratico teorizzato a più riprese dal leader curdo Abdullah Ocalan, rinchiuso dal 1999 nell’isola-prigione turca di Imrali, dove sconta l’ergastolo per attività separatista armata.

Un’idea che Isis vede come una guerra aperta al fondamentalismo islamico e pertanto, una minaccia da estirpare. “Anche donne di altre etnie lottano con noi” – continua Asi Abdullah. Perchè Isis per le donne è un grandissimo pericolo, vogliono cancellarne la storia, la cultura, e quando le uccidono infieriscono su cadaveri. Sono il loro principale nemico e il fatto che la donna del Rojava sia così emancipata per loro è un fatto molto grave. Nel Kurdistan Rojava per quanto riguarda i diritti delle donne c’è un avanzamento grande. Come donne abbiamo creato un sistema nuovo, siamo in prima linea per una donna libera. Siamo un punto di riferimento per la storia. Per esempio in ogni quartiere oltre alla Casa del Popolo c’è la Casa delle Donne, ci sono le Accademie delle Donne, c’è l’esercito delle donne, nel sistema di autogoverno nel congresso il 40% sono donne e il sistema di co-presidenza prevede per ogni ente (partiti, associazioni, municipalità, ndr) un doppio presidente, un uomo e una donna. La lotta del Rojava è una lotta per la liberazione delle donne”.

“In ogni quartiere c’è la Casa delle Donne, ci sono le Accademie delle Donne, l’esercito delle donne, nel sistema di autogoverno nel congresso il 40% sono donne e ogni ente ha un doppio presidente, un uomo e una donna”

I campi profughi di Suruc
Terra di frontiera per lo stato turco, terra di passaggio per il popolo curdo. A Suruc c’è ancora clima di festa per il recente Newroz. Un ragazzino ci accoglie con una bandiera di Ocalan grande quanto lui. Nascondersi dietro la sua icona, qui, significa affermare la propria identità. Andiamo alla municipalità per un incontro con Mustafa Dogal, diplomatico del Congresso Democratico, da sei mesi in città per gestire la crisi degli sfollati da Kobane. “Abbiamo accolto complessivamente in tutto 126mila rifugiati dalla Siria, in pratica raddoppiando la popolazione dell’area – spiega Dogal – qui a Suruc ci sono sei campi profughi per la popolazione del cantone di Kobane. Uno gestito dallo stato turco tramite l’Afad (protezione civile turca), cinque dai compagni curdi. Con la differenza che nei i campi gestiti totalmente dall’autonomia curda i rifugiati sono liberi di muoversi , mentre quello dell’Afad è gestito militarmente, quindi per uscire serve l’autorizzazione. Inoltre al contrario degli altri è stato costruito dopo la liberazione di Kobane. Ma a quel punto i rifugiati non volevano più andare in un campo profughi, volevano tornare a Kobane.”

I turchi presidiano il confine con militari armati di mitra. La questione dei curdi siriani è per loro l’estensione di una minaccia interna. Se si rafforza il Rojava, si rafforzano tutti i curdi e non è tollerabile. “Dal 1945 ad oggi i quattro paesi in cui viviamo (Turchia, Siria, Iraq, Iran) sono membri delle Nazioni Unite, ma tutti hanno fatto un embargo contro il popolo curdo e contro chiunque venga ad aiutare i curdi”, prosegue Dogal appellandosi alla comunità internazionale e rimarcando il ruolo del popolo curdo a tutela della democrazia occidentale. “Per 70 anni l’unità curda non è stata possibile proprio per colpa dei confini e dei regimi totalitari degli stati nazione. Ci hanno diviso in maniera forte, con la volontà di non farci tornare insieme. I curdi uniti sono forti, divisi no, e non solo i curdi, ringraziamo anche i fratelli occidentali come voi. Perchè la civiltà è partita da qui tra il Tigri e l’Eufrate, la gente europea e americana ha le sue radici qui e voi dovreste avere a cuore le vostre radici. Noi combattiamo per la democrazia in tutto il mondo. Se l’area controllata dai curdi sarà sicura, tutto il mondo sarà sicuro. Se ci aiuterete a difendere quest’area i fondamentalisti non potranno più svilupparsi e la democrazia potrà durare nel tempo. Il popolo curdo è l’assicurazione dell’intero mondo.”

Kobane, aldilà del filo spinato
Vogliamo portare la nostra solidarietà a Kobane e ci dirigiamo verso il confine. Arrivati al confine vediamo sventolare all’orizzonte la bandiera dell’YPG, illuminata da un raggio di sole. La Rojava Autonoma è a poche centinaia di metri, la città si stende davanti a noi, davanti alla collina su cui dal 26 gennaio è issata bandiera curda. Finalmente ci siamo, il centro del mondo è qua, davanti a noi. Ci chiedono i passaporti, siamo 60, tutti italiani, vogliamo stare in Rojava solo per qualche ora. Il nostro accompagnatore parla in turco con il militare, sorride verso di noi dicendo che “dai, forse passiamo”. Il militare telefona in prefettura. Niente da fare.

Di nascosto fotografiamo automobili abbandonate a pochi metri dal confine. Gli abitanti di questo piccolo villaggio vicino Mesher ci spiegano che da Kobane le persone sono scappate in poche decine di minuti, buttando tutto quello che potevano in macchina, dirigendosi verso la frontiera turca e, una volta giunti a destinazione, abbiano poi abbandonato auto e bagagli sperando di recuperarle in seguito. Ma i militari turchi non permettono che i civili vadano a prendere le loro cose, diventate così bottino di guerra dei militanti dell’Isis. Lo spettacolo è desolante, ricorda le immagini di Pripyat, la città abbandonata dopo l’esplosione di Cernobyl, con la differenza che in questo caso l’abbandono non è conseguenza di un incidente catastrofico ma della barbarie dell’uomo.

di Federico Maccagni e Pierpaolo Tassi

(Foto di Federico Maccagni, Cristiano Lissoni e Roberto Fumagalli)

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