“Non ritiro nulla di quello che ho detto”. Così, in un’intervista a Slate, Seymour Hersh reagisce alla pioggia di accuse, spesso anche di insulti, che il suo pezzo sulla London Review of Books ha provocato. Con il piglio combattivo del reporter che altre volte nella vita ha smascherato le verità ufficiali, Hersh non retrocede dalla tesi centrale del pezzo. E cioè che Osama bin Laden nel compound di Abbottabad si trovava agli arresti e che i servizi di intelligence militare pakistana lo usavano come strumento per controllare talebani e Al Qaeda.

Quando gli Usa vennero a conoscenza della cosa, attraverso un agente dell’intelligence pakistano che tradì in cambio di 25 milioni di dollari, organizzarono un raid in collaborazione con i servizi di Islamabad. La versione sui cui Obama e i pakistani si accordarono, era che bin Laden fosse stato ucciso durante un attacco con i droni. Nell’annunciare al mondo l’uccisione del nemico numero uno, Obama prese per sé e per la sua amministrazione tutto il merito dell’azione.

“E’ una ricostruzione piena di problemi e contraddizioni”, scrive ora Max Fisher su Vox.com. Fisher, un ex-giornalista di New Republic, è forse chi nelle ultime ore ha contraddetto con più forza le tesi di Hersh. L’accusa centrale è che il giornalista, dopo gli eccellenti lavori su My Lai e Abu Ghraib, si sia lasciato andare a un giornalismo poco serio, fatto di “teorie cospirative”, come nel pezzo del 2012 per il New Yorker, in cui scriveva che gli Stati Uniti stavano addestrando terroristi iraniani in Nevada. Fisher fa notare le contraddizioni del resoconto di Hersh sulla morte di Osama.

Se la Cia sapeva dove si trovava bin Laden, perché non eliminarlo direttamente attraverso i servizi pakistani? Perché inviare i Navy Seals, perché mettere a rischio la vita degli uomini dei corpi speciali, rischiando il fallimento, quando con molta meno fatica si poteva comunque eliminare il terrorista? Infine, Hersh avrebbe confidato troppo su un’unica fonte, quella del funzionario dell’intelligence pakistano che gli avrebbe raccontato una storia ai limiti del fantastico.

Critiche pesanti alla ricostruzione di Hersh vengono anche da Philip Carter in un commento su Slate. “Si tratta di cattiva fiction”, scrive Carter, che punta il dito anzitutto su un aspetto. Hersh basa la sua ricostruzione su una fonte dell’intelligence pakistana e su due “antichi consulenti dello Special Operations Command”, che si sarebbero trovati a soli “due gradi di separazione” dai team di Cia e Pentagono che condussero l’operazione. Ma, spiega Carter, con l’eccezione dei capi delle agenzie di intelligence, nessun agente, tanto meno dei “semplici consulenti”, potrebbero conoscere tutti i dettagli di un’operazione come quella dell’assassinio di bin Laden.

La “compartimentazione” delle informazioni, per ragioni di sicurezza”, rende del tutto improbabile quella onniscienza su quanto successo che i “consulenti” di Hersh esibiscono. Altro fatto incredibile, secondo Carter, è il grado di collaborazione che la ricostruzione di Hersh postula tra militari americani e pakistani. La segretezza con cui i comandi militari Usa avvolgono le loro operazioni è ben nota, e sarebbe folle pensare che i generali di Washington abbiano messo la vita dei propri Navy Seals nelle mani dei pakistani.

Nelle ultime ore sono però arrivate a sostegno delle tesi di Hersh alcune autorevoli conferme. Una viene direttamente dal Pakistan. Il quotidiano The News scrive che l’uomo che ha venduto le informazioni su bin Laden alla Cia per 25 milioni di dollari esiste davvero, si chiama Usman Khalid, è un ex-funzionario dei servizi di Islamabad e ora vive a Washington sotto la protezione della Cia.

Altra importante conferma in un servizio di Nbc News, secondo cui “un funzionario dell’intelligence pakistano aiutò la Cia nell’identificare bin Laden”. Secondo Nbc, il funzionario non fornì agli americani tutte le informazioni necessarie al raid dei Navy Seals, ma il suo ruolo fu “vitale”. Nbc aggiunge anche, sulla base di almeno “tre fonti”, che “alcuni membri del governo pakistano sapevano dove bin Laden si nascondeva”.

Un altro autorevole commento a favore di Hersh è quello apparso sul New York Times Magazine a firma di Carlotta Gall (il Times non può essere considerato particolarmente vicino a Hersh, che in una recente intervista ha criticato il giornale per l’appoggio incondizionato all’amministrazione Obama). La Gall, che è la corrispondente dal Nord Africa per il Nyt e ha scritto un libro sulla presenza americana in Afghanistan, racconta che “mentre facevo le mie ricerche, venni a sapere da un membro di alto livello dei servizi pakistani che l’Isi, gli stessi servizi militari pakistani dunque, avevano nascosto bin Laden e che anzi avevano un ufficio specificamente dedicato alla gestione di bin Laden come bene di intelligence. Dopo la pubblicazione del mio libro, venni a sapere di più: che fu proprio un brigadiere dell’esercito pakistano… a dire alla Cia dove bin Laden si nascondeva e che bin Laden stava vivendo sotto protezione dell’Isi”. Gall spiega anche che, allora, non pubblicò la notizia, perché non ne aveva l’assoluta certezza. Anche se rimase sempre convinta che “l’informazione fosse vera”.

Ad alcuni, e tra questi Trevor Timm dell’American Civil Liberties Union, non sfugge poi un ulteriore elemento. La Cia, con il suo vecchio direttore Leon Panetta e l’attuale John Brennan, l’ex-capo del Pentagono Donald Rumsfeld, una schiera numerosissima di senatori e deputati, hanno sempre sostenuto che la tortura, in particolare il waterboarding ai danni di Khalid Sheikh Mohammed, condusse a ottenere informazioni importanti per identificare Osama. Scrivere, come fa Hersh, che furono i pakistani i veri informatori, fa crollare un pilastro della war on terror americana di questi anni.

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