Cultura

“Un Paese ci vuole”, sedici autografi dai “capelli bianchi” più giovani del mediocre stil novo così di moda

Esce oggi, 14 maggio, in libreria la raccolta di interviste di Silvia Truzzi pubblicate sul Fatto quotidiano nella serie “Autografi”: Andrea Camilleri, Luciana Castellina, Guido Ceronetti, Pietro Citati, Gherardo Colombo, Massimo Fini, Vittorio Gregotti, Claudio Magris, Dacia Maraini, Piergaetano Marchetti, Piero Ottone, Giampaolo Pansa, Stefano Rodotà, Giovanni Sartori, Emanuele Severino, Gustavo Zagrebelsky

di Silvia Truzzi

Esce oggi in libreria “Un Paese ci vuole” che raccoglie 16 interviste di Silvia Truzzi uscite sul Fatto quotidiano nella serie “Autografi”, con la prefazione di Massimo Gramellini. I 16 italiani con i capelli bianchi sono: Andrea Camilleri, Luciana Castellina, Guido Ceronetti, Pietro Citati, Gherardo Colombo, Massimo Fini, Vittorio Gregotti, Claudio Magris, Dacia Maraini, Piergaetano Marchetti, Piero Ottone, Giampaolo Pansa, Stefano Rodotà, Giovanni Sartori, Emanuele Severino, Gustavo Zagrebelsky. Di seguito uno stralcio dalla prefazione dell’autrice.

Antonio Padellaro mi aveva chiesto di mandargli una lista di persone da intervistare. Era l’autunno 2013, il direttore voleva iniziare una serie: l’idea era provare a capire come stava l’Italia. “Per favore, non voglio politici. Vorrei analisi politiche, ma politici no”. Cominciai a compilare l’elenco delle persone che m’interessava incontrare, perché credevo avessero qualcosa da dire, naturalmente non solo a me: alla fine mi accorsi che quasi tutte vantavano diverse primavere sulla carta d’identità. Il direttore approvò la lista: la serie – che è ancora in corso – si sarebbe chiamata “Autografi”. 

Soffiava già il vento della rottamazione: la prima di un lungo elenco di parole detestabili che avrebbero invaso giornali e televisioni. Avremmo visto di peggio: supplentite, jobs act, cool, perfino l’inesistente “proponenza”. Questo mediocre stil novo mi sembrava riflettesse uno straordinario impoverimento d’idee, in generale l’assenza di una visione. Un lessico utile a distrarre, a buttare la palla fuori dal campo, a camuffare; completamente inadeguato a dare risposte tanto a una sofferenza sociale in crescita quanto alle domande di un mondo relazionale sempre più complesso. Il gioco delle tre carte della politica si chiama “comunicazione, e il fatto che i rottamatori siano definiti grandi comunicatori a me sembra una colossale scemenza. Luigi Settembrini, patriota e letterato napoletano, sosteneva che per avere una buona lingua serve un buon Paese. Il vuoto è il pieno e il sereno è la più diffusa delle nubi, dice Montale in un verso: il rapporto lingua-Paese si può anche leggere al contrario. E la conclusione che se ne trae non è allegra. La politica si esprime per frasi vaghe e vuote, dove per vuote s’intende incontrovertibili. “Siamo per il rinnovamento”; “Cambiamo le cose che non vanno”; “Mettiamo la scuola al centro”. Potrebbe un politico dirsi contrario al rinnovamento? Il rovesciamento lo spiega benissimo Leonardo Sciascia in Una storia semplice. L’ex studente del professor Franzò è ormai un magistrato e, prima dell’interrogatorio, ricorda al suo insegnante i brutti voti del liceo: “Ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica”. Ferocissima la risposta: “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”.

Eppure nonostante l’evidentissima modestia, i nuovi governanti non si accontentano della presa del Palazzo d’Inverno. I ragazzi “col gelato” (copyright Diego Della Valle) manomettono la Costituzione con gran gusto: che il Parlamento sia stato delegittimato dalla Consulta non li tocca, che l’Italicum sia pericolosamente simile al Porcellum (giusto un po’ peggiore) neppure. Non hanno ascoltato le parole che il senatore del Pd Walter Tocci scandì in Aula ai signori del precedente governo, quello di #enricostaisereno, citando il nuovo articolo 81 della Carta sul pareggio di bilancio: “La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi come in un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte da noi”. Forse è un paradosso, ma proprio l’insofferenza alle critiche di Matteo Renzi (le sue battute su “professoroni”, “soloni”, “gufi” che tanto ricordano il “culturame” di Mario Scelba), l’ossessivo richiamo alla gioventù, alla novità, al cambiamento purchessia hanno dato un’ulteriore chiave di lettura a queste interviste. Ci ho messo molti anni a diventare giovane, ha detto una volta Bob Dylan. Vale anche per i sedici italiani che incontrerete: freschezza, vivacità, originalità, voglia di combattere e persino anticonformismo non sono qualità che riguardino l’anagrafe.

da Il Fatto Quotidiano del 14 maggio 2015

“Un Paese ci vuole”, sedici autografi dai “capelli bianchi” più giovani del mediocre stil novo così di moda

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