Una vecchia attrice statunitense diceva che “il miglior modo per non avere odori sgradevoli in cucina è mangiare fuori”. Ad Expo, da oggi per una decina di giorni, al padiglione Coldiretti (all’inizio del Cardo, ingresso sud), ai cibi che puzzano è dedicata persino una mostra. Così va in scena la biodiversità dell’agricoltura italiana.

Aglio abruzzese. Alici sotto sale. Blu di pecora. Pecorino di Teramo. Ricotta pugliese. Formaggio ‘Puzzone’ di Moena, tartufo delle Marche e altri ancora. La top ten della ‘puzza che piace’: cibi fortemente rappresentativi della cultura, della tradizione e del territorio nazionale. Tratti distintivi: l’odore forte e pungente che ne esalta le specifiche proprietà.

Ma in vetrina Coldiretti ci mette anche specie vegetali antiche che rischiavano di andare perdute ed ora invece “colorano curiosamente la spesa degli italiani, i quali potranno conoscerle e apprezzarle”, fa sapere l’associazione degli agricoltori, rappresentata all’esposizione universale dal presidente nazionale Roberto Moncalvo.

Presso lo stand dei prodotti agricoli, si parla altresì di alimenti “perfetti”, che a rotazione saranno protagonisti nelle diverse categorie del padiglione “No farmers no party”. “L’obiettivo è quello di far conoscere la grande diversità del vero made in Italy alimentare che è stato salvato dall’omologazione grazie all’impegno degli agricoltori italiani”. Nel Roof garden del padiglione, spazio infatti ad alcuni esempi di capacità innovativa degli agricoltori italiani: dal vino poliglotta, che parla oltre 40 lingue del mondo, ai fiori da mangiare, ultima frontiera dell’enogastronomia, fino alla “bionda metropolitana” che ha conquistato il Paese del Dragone e al formaggio che risale ai Longobardi.

Sarà l’occasione per presentare la prima rete di orti metropolitani pick your own con ‘l’adozione a distanza’ di terreni coltivati e la possibilità di raccogliere di persona frutta e verdura. Da una parte il nuovo parco agricolo con 200 orti condivisi e i labirinti di mais e girasoli per i più piccoli, dall’altra il mais blu degli antichi Incas, recuperato in collaborazione con l’Università Statale di Milano.

Twitter: @bacchettasimone

Articolo Precedente

Expo 2015, il New York Times: ‘Dalla modernità l’Italia non ha imparato l’efficienza’

next
Articolo Successivo

I ‘negazionisti’ dell’allevamento intensivo

next