Post tratto dall’articolo apparso su The New Yorker 

A chi appartiene un embrione congelato: all’aspirante madre che ha dato l’ovulo o all’uomo che ha fornito il seme? Cosa fare degli embrioni quando le coppie si separano? E chi ha davvero diritto di decidere della loro sorte?

Karla e Jacob si frequentano da cinque mesi: a inizio 2010 a Karla viene diagnosticato un linfoma non-Hodgkin. La chemioterapia la renderebbe sterile. Così Karla chiede a Jacob di donare lo sperma per produrre embrioni da crioconservare, per una eventuale gravidanza futura. Lui acconsente, e in un laboratorio della  Northwestern University, nello Stato dell’Illinois, si ottengono otto embrioni. In realtà il termine tecnico sarebbe pre-embrione quando non ancora impiantato, che qui chiameremo “embrione” per convenzione. Pochi mesi dopo, mentre Karla è al secondo ciclo di chemioterapia, la coppia rompe l’idillio. Lui riprende una relazione precedente, ma presto anche quella fallisce a causa della vicenda degli embrioni.

Inoltre, poiché Karla intende essere l’unica responsabile del futuro del bambino nato dagli embrioni, Jacob matura la consapevolezza di non voler più essere un padre totalmente escluso.

Diverse diatribe dopo, gran parte via mail, Jacob presenta una denuncia che vieta a Karla l’utilizzo degli embrioni. La sentenza di primo grado è vicina e Karla potrebbe impugnarla presso la Corte Suprema dell’Illinois.

Saranno decisivi, il tipo di contratto stipulato tra i due (pare ne esista una bozza scritta da un avvocato per l’utilizzo degli embrioni, che peraltro non è stata mai perfezionata in un contratto firmato) e cosa preveda il modulo di consenso informato che Jacob ha firmato nel laboratorio della Northwestern University al momento di avviare la procedura.

Nel frattempo, secondo diversi quotidiani, Karla rimane incinta di un altro embrione donato. Ciononostante, continua a desiderare un figlio geneticamente suo.

In Illinois questo è il primo giudizio che riguardi un contenzioso su embrioni crioconservati.

Nel 1992, la Corte Suprema del Tennessee, in assenza di un accordo preventivo circa la disposizione degli embrioni, ha sentenziato: “deve prevalere la parte che desidera evitare la procreazione se la controparte ha una scelta alternativa ragionevole per diventare genitore”, disponendo altresì la distruzione degli embrioni, nel caso di una coppia che divorzi, accogliendo la volontà dell’ex marito che non ha voluto diventare padre.

Nella controversia del caso Karla-Jacob, un anno fa il giudice ha sostenuto che la decisione dovrebbe basarsi su un contratto, e nel caso non ci fosse, sulle conversazioni telefoniche intercorse tra i due ed essere usate come un contratto orale. E infine – in controtendenza – dovrebbero prevalere gli interessi di Karla perché non più in grado di avere figli geneticamente.

La cosa interessante di tutta questa storia, è quanto spesso durante il dibattimento, il tema in discussione si sia spostato o abbia cambiato prospettiva per un problema linguistico, una mancanza di linguaggio che descrivesse realmente ciò che era in gioco. Come se i termini esistenti non fossero adeguati a cogliere la vera natura della controversia. Così, se per l’avvocato di Karla, Jacob è un donatore di sperma, per l’avvocato di lui quella stessa azione è “fornire” sperma. In una dichiarazione di Karla, in cui si fa riferimento alla “custodia” degli embrioni, si indica quella stessa decisione con il termine “disposizione”, un termine generalmente correlato alla proprietà. Poi, nel mezzo della testimonianza, Karla comincia a descrivere gli embrioni come fosse già incinta di tre gemelli, rivelando di aver già deciso come li avrebbe chiamati.

Scientificamente e legalmente, un embrione congelato non è la stessa cosa di un bambino. Tuttavia, sembra non esserci ancora un modo chiaro per descrivere il tipo di decisione che i futuri genitori stanno cercando di prendere. Il problema si pone in tutta la sua complessità nei casi sempre più frequenti.

Secondo un accademico coinvolto nel caso, “Karla non ha bisogno di essere madre genetica di un bambino per avere con lui un legame biologico. Se ha portato in grembo un figlio e lo ha partorito, direi che lei è la madre biologica di quel bambino. La genetica non è l’unico legame che una donna possa avere con i suoi figli.”

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