Il Fondo monetario internazionale non smette di stupire. Dopo aver ammesso di non essere in grado di stabilire una correlazione tra una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e una crescita economica più sostenuta, ora rivaluta a tutto tondo il ruolo degli investimenti pubblici, soprattutto se fatti a debito. Lo studio firmato da Abdul Abiad, Davide Furceri e Petia Topalova si intitola “gli effetti macroeconomici degli investimenti pubblici” e prende in esame 17 Paesi Ocse nel periodo 1985-2013. A pagina 2 si parte subito con il botto: “Lo studio evidenzia che l’incremento degli investimenti pubblici aumenta la produzione, sia nel breve che nel lungo termine, favorisce gli investimenti privati e riduce la disoccupazione”.

In una situazione di debolezza economica e politica monetaria accomodante – cioè esattamente la situazione dell’aera euro – continuano i tre economisti di Washington, gli effetti sulla domanda sono più forti e alla fine il rapporto tra debito e Pil può persino migliorare. Non solo. In modo un po’ lapalissiano l’Fmi sottolinea come i benefici siano maggiori nei Paesi dove la spesa pubblica è gestita con più efficienza. Ma soprattutto aggiunge che l’effetto positivo aumenta se la spesa è finanziata a debito poiché alla fine l’effetto di spinta all’economia riporta il rapporto debito/pil a livelli simili rispetto a quelli che si otterrebbero stringendo i cordoni delle casse pubbliche. E ancora: “Si riscontrano significative evidenze che investimenti finanziati a debito hanno effetti espansivi maggiori rispetto a quelli neutrali per i conti pubblici o finanziati con un incremento delle tasse o tagli alla spesa pubblica”. Con tanti saluti ai teorici della mitologica “austerità espansiva” che annovera tra i principali sostenitori l’ex economista dell’Fmi Kenneth Rogoff e Alberto Alesina dell’università di Harvard.

Lo studio quantifica poi gli effetti in termini di crescita economica ed occupazione di una cura “shock” a base di investimenti pubblici destinati principalmente alle infrastrutture. Nei casi studiati la disoccupazione è diminuita in media dello 0,1% nell’immediato e dello 0,35% nel medio termine. In una situazione di economia stagnante la produzione ha subito una spinta dell’ 1,5% nel primo anno e del 3% nel medio termine. Quasi nulli, viceversa, i benefici sulla crescita quando l’economia viaggia già a ritmi sostenuti. Allo stesso modo è possibile riscontrare degli effetti positivi sugli investimenti privati ma unicamente se gli stimoli pubblici arrivano in contesti di stagnazione.

Lo studio sembra essere una conferma su tutta la linea di politiche economiche di natura keynesiana per fronteggiare situazioni di perdurante debolezza economica. Politiche che in anni recenti avevano goduto di ben poco favore nei corridoi di Washington. Pochi giorni fa il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, da sempre sostenitore di politiche pubbliche interventiste in situazioni di crisi economica, ha sottolineato sul suo blog come l’Fmi sia diventata una straordinaria fucina di ragguardevoli studi economici da quando (settembre 2008) la carica di capo economista è stata assunta dal francese Olivier Blanchard. Più in generale da tempo il Fondo, riecheggiando gli orientamenti dell’amministrazione statunitense, caldeggia un approccio più attivo da parte dei governi alla crisi economica europea. Una linea in netto contrasto con quella dell’ultra rigore portata avanti dalla Germania.

Il “paper” giunge inoltre in un momento molto delicato delle trattative tra la Grecia e i suoi creditori Unione europea, Banca centrale europea e, appunto, Fmi. Il Fondo sostiene una posizione meno rigida rispetto a quella europea per quanto riguarda la riduzione del debito di Atene. E’ invece favorevole a una nuova ristrutturazione dei debiti. Anche perché in ogni caso non riguarderebbe i suoi prestiti.

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