La vita di Silvio Nadalin è dentro la sala operatoria. È specializzato in trapianti di fegato, pancreas, intestino e reni. Ne esegue un centinaio all’anno. Sommati ad altri duecento interventi chirurgici. Sotto i suoi ferri ha soprattutto bambini. “Inizio a lavorare al mattino alle sette e non so quando finisco. Non stacco mai, neanche nei weekend. Non puoi startene tranquillo a casa se hai un paziente in terapia intensiva. Avevo la sensazione che arrivando in alto fosse meno dura, invece mi sbagliavo”.

Nadalin, classe 1966, milanese di origini friulane, dal 2008 è direttore del centro trapianti dell’Ospedale universitario di Tubinga, in Germania. “Ho provato a farmi prendere in Italia ma non ha funzionato”, spiega. Insieme a lui lavorano altri quattro camici bianchi italiani. Il tedesco lo aveva imparato durante la specializzazione a Hannover. Qui era arrivato nel 1994 con una borsa di ricerca di un anno, i professori gli avevano chiesto di rimanere e lui aveva accettato.

“Mi ero laureato nel 1991 con 110 e lode, tentai per due volte di entrare alla specialità in chirurgia a Milano ma andò male. La terza volta fui preso a Brescia ma feci solo sei mesi perché poi mi trasferii in Germania. Nel frattempo feci la gavetta al San Raffaele, dove imparai tantissimo”. Nel 2000 ha vinto una fellowship in chirurgia epatobiliare e dei trapianti all’ospedale universitario di Essen. Dopo un anno da assistente è diventato aiuto ospedaliero.

“Ormai sapevo fare le operazioni da solo, collaboravo con il primario e insegnavo agli specializzandi”. Di non essere ritornato nel suo Paese non si è mai pentito. Tutti i sacrifici che ha fatto gli sono valsi una rapida carriera. Nel 2007 è nominato vicedirettore dell’ospedale di Essen, l’anno successivo lo troviamo a Tubinga, dove oltre alla direzione del centro trapianti e della chirurgia epato-bilio-pancreatica da tre anni ricopre la carica di vicedirettore della clinica.

Siamo riusciti a sentirlo in uno dei suoi rari momenti di pausa pranzo. Nel pomeriggio avrebbe avuto delle riunioni di équipe per discutere su tre casi clinici. “Un’operazione è sempre un lavoro di squadra tra chirurgo, anestesista, e gli altri specialisti coinvolti, epatologo, oncologo, in caso di trapianto di fegato in un paziente malato di cancro”. Nadalin ha a che fare con la vita e con la morte ogni giorno. “Come faccio non lo so. Quando mi trovo davanti un bambino morto so che trapiantando i suoi organi sto ricompensando la vita di quello che li riceve. Quando però lotti contro un tumore e il paziente non ce la fa, noi medici non possiamo fermarci. Al pompiere se non salva qualcuno è concesso un mese a casa di recupero. Così i giocatori di una squadra, se uno di loro muore, gli altri sono seguiti dallo psicologo. Noi medici no, ce la dobbiamo cavare da soli”.

Pensa di tornare in Italia un giorno? “Per adesso ci vado 3/4 volte all’anno per visitare i parenti. Se mi offrissero un posto alle stesse condizioni che ho in Germania, direi di sì. La città ideale sarebbe Bologna, mi piace lo spirito di chi vive lì”. I pazienti tedeschi si fidano di un medico straniero? “Certo, e come italiano sono stimatissimo. Fuori dall’ospedale è diverso. Fanno le solite battutine, mafia, pizza, mandolino e ‘bunga bunga’, non vanno oltre, Renzi nessuno sa chi è. Per loro siamo dei giullari. Ma dal punto di vista professionale ci rispettano tantissimo”.

Dell’Italia cosa le manca? “L’elasticità mentale, i tedeschi a volte sono troppo rigidi, e i momenti goderecci, l’idea di andare al bar, bersi un caffè, scambiare due chiacchiere con gli amici, qui non esistono”. Qualche consiglio per gli aspiranti medici? “Aprite gli orizzonti, imparate l’inglese per fare esperienze all’estero e rimanere aggiornati nella ricerca. La volontà non ci manca. I tedeschi, a differenza di noi, fanno passi più lenti. Noi guardiamo sempre cosa fanno gli altri, ci confrontiamo per migliorarci, in generale non ci accontentiamo mai. Quindi cercate un luogo di lavoro che rispetti la vostra voglia di fare e sarete premiati. Anche in Italia non ne mancano”.

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